C’è un vecchio libro di Bernard-Henri Lévy che quando apparve nel 1981 fu accolto come un pretestuoso e inutilmente polemico attacco alla tradizione politica francese da parte di un intellettuale che per opportunità si dichiarava deluso dalla sinistra ma che nel fondo del cuore era un uomo di destra. A rileggere “L’idéologie française” oggi, alla luce del successo di Marine Le Pen e delle sue posizioni xenofobe, razziste e antieuropee, le pagine di Bernard-Henri Lévy appaiono invece rivelatrici.
Ci si accorge che aveva visto giusto quando affermava che è nella cultura francese, non in quella tedesca, che sono germogliati i semi del nazismo. Solo incidentalmente la Germania ha realizzato quello che però in Francia si era pensato. È nella Francia del Fronte popolare, e soprattutto a sinistra, che si consolidano i pregiudizi già apparsi con il caso Dreyfus. E che dilagano nell’opinione francese, avvelenandone i pozzi se perfino un intellettuale come André Gide affermava che “le qualità della razza giudaica non possono che falsare e corrompere gravemente e in modo intollerabile l’identità e la razza della letteratura francese”. ”Giudei dai tratti scimmieschi”, scrive ancora Martin du Gard, “eterni speculatori del sangue cristiano” aggiunge Marcel Jouhandeau, “pietosi animali da circo” rincara Jacques de Lacretelle, tutti scrittori dell’epoca. Oltre all’ebreo cosmopolita, fa paura ai francesi l’internazionalismo socialista, ma perché è internazionale, non perché è socialista.
Così la stessa sinistra francese diventa etnica e presto si volge al perseguimento di un socialismo nazionale, autoctono, franco-francese. Culto della bandiera e della tradizione, recupero della mitologia celtica, lotta di classe in chiave razziale dove l’obiettivo è “difendere la famiglia francese, la Francia eterna”, questa è l’altra faccia del Fronte popolare di Léon Blum. Un gerarca del Partito comunista francese nel 1936 incitava i suoi a “restare fedeli a quella selezione di grazia e misura che si chiama cortesia francese”. “Il PCF non è a sinistra, è a est”, si diceva negli anni Ottanta. Bernard-Henry Lévy va oltre e afferma che il PCF era negli anni Trenta un partito di estrema destra. “Uno spettro incombeva sul PCF: il pensiero tedesco” scrive ancora l’autore e cita il sindacalista Edouard Berth: “il popolo è una realtà carnale, intessuta di sangue, di tradizione, di razze.” Sono di nuovo gli intellettuali i più feroci sostenitori della necessità di questa pulizia nazionale e spesso anche simpatizzanti del nazismo.
Scrive Alphonse de Châteaubriant: “Se Hitler con una mano saluta, tende verso le masse nel modo che sappiamo, con l’altra invisibilmente non cessa mai di stringere la mano di colui che chiamiamo Dio”. Romain Rolland invoca “le cosce dure di una dittatura che cavalchi i popoli e li liberi dalle pastoie della pseudo-democrazia”. Jean Giraudoux propone di istituire un “Ministero della razza” e gli agitatori del PCF sono all’origine della diceria allora diffusa che affermava l’esistenza di una famigerata nuova malattia, la “malattia n.9”, propagata dagli ebrei. I francesi osservano da lontano l’esperimento hitleriano e quello mussoliniano considerando il primo troppo democratico e il secondo troppo borghese, spiega Bernard-Henry Lévy. Si preparano a un totalitarismo francese che, lui sì, sarà perfetto. Scrivono all’epoca gli ideologi di Ordre Nouveau: “La rivoluzione si sta preparando e i movimenti russi, italiani e tedeschi non ne sono che prodromi imperfetti.”
Da questo sordido vivaio uscirà la Francia collaborazionista di Vichy che tutti conosciamo. Ma secondo quello che scriveva Bernard-Henri Lévy 33 anni fa, il pensiero di questa Francia non è mai morto. Uscendo vincitrice dalla guerra, la Francia non si è mai ripulita della sua anima nera che è sfuggita alla resa dei conti della storia. L’attualità ce lo dimostra e ci fa capire la gravità del momento. La Francia contro cui ci metteva in guardia Bernard-Henry Lévy 33 anni fa sta risorgendo e le conseguenze che questo può avere sono imprevedibili. Martine Le Pen oggi riporta i francesi nell’angusto mondo dell’Ancien Régime, al vecchio mito terragno della nazione che in Francia è la madre di tutti i fanatismi, di destra come di sinistra. Ma c’è anche altro nell’analisi di Bernard-Henry Lévy che deve farci riflettere. Scrive l’autore per descrivere la mentalità della Francia degli anni Trenta: “L’epoca almeno è d’accordo sull’essenziale. L’uomo nuovo che essa sogna non sarà né di destra né di sinistra: sarà giovane. Non penserà né giusto né sbagliato: penserà diritto. Non coltiverà né il bene né il male: ma la salute e la vita.” A guardarci bene, questa è una succinta descrizione del moderno spirito rinunciatario e individualista. Questo culto dell’eterna giovinezza, dell’opinione incolore e dell’asservimento al comune ben pensare è tipico del nostro tempo. Forse questo ancora di più dovrebbe farci paura perché rivela che è su questo terreno che prosperano i totalitarismi. “Poiché il fascismo, prima di dare la morte, comincia sempre con il proclamare la sua fede nella vita”, scrive ancora l’autore.
A conclusione del suo libro, Bernard-Henry Lévy dice, “la Francia è sempre stata divisa in due: una, la patria petainista, concreta e carnale, fondata sul sangue e sui morti, di cui si può calpestare il suolo, annusarne gli odori familiari, contemplarne i cimiteri ascoltando l’Angelus; e l’altra, la pura idea gollista, astratta e disincarnata, tessuta di ombre e di sogno, delle allucinazioni di un visionario che ne ha visto il destino non tanto nelle pietre e nei campi ma nelle lettere dei libri. Io di questa mi sento figlio, di questa Francia delle nuvole, (…) di questa Francia di carta e di lettere così fragili, di questa Francia senza odore che talvolta ha sfidato il cielo, di questa Francia di cui Malraux disse, credo che essa non sia mai tanto grande di quando lo è per tutta l’umanità.” Di questa Francia abbiamo bisogno anche noi e dobbiamo al più presto ritrovarla.
Diego Marani