Dopo aver intervistato diversi cantautori italiani “trapiantati” nella Capitale d’Europa (Giacomo Lariccia, Saverio Cormio, Daniele Napodano), abbiamo l’occasione di scambiare quattro chiacchiere anche con Angelo Gregorio, sassofonista originario di Salerno, che a Bruxelles si sta facendo conoscere anche grazie a un’intensa attività live.
Come è nata la tua passione per la musica e per questo strumento che, personalmente, considero “magico”
In verità la mia passione per la musica è nata per la chitarra, non per il sax. Scoprii da piccolo questo strumento che era di mia mamma – ricordo era tutto impolverato quando la presi in mano la prima volta – e che, di fatto, mi ha introdotto alla musica. Ho imparato a suonarla da autodidatta. Quando avevo 14 anni ci trasferimmo da Salerno a Vercelli e suonare mi ha aiutato molto a vincere un po’ quella solitudine che inevitabilmente vivevo, soprattutto in quanto adolescente proveniente dal sud d’Italia. A un certo punto però ho capito che la vena cantautorale che stavo sviluppando non mi soddisfaceva pienamente e, più in là nel tempo, mi sono innamorato del sassofono. Ricordo che avevo 17 anni e vidi in una vetrina di un club dove facevano musica dal vivo, questo strumento tutto dorato e che, grazie alle luci, era tutto scintillante: rimasi quasi folgorato dalla sua immagine, prima ancora che dal suono. Ho letteralmente “messo in croce” mio padre per farmi comprare il mio primo sax, che all’epoca costava 800 mila lire, dopo di che ho iniziato a suonare per la banda del paese, mi sono avvicinato al jazz con una “sana presunzione” e ho anche iniziato a dare le prime lezioni private. Mi volevo iscrivere al Conservatorio a Salerno – nella sezione classica, perché non c’era la sezione jazz all’epoca – ma il primo anno non ci sono riuscito e quindi mi sono iscritto all’Università della Musica di Roma. L’ho frequentata però solo per un anno perché era troppo faticoso e dispendioso, facendolo da pendolare. L’anno dopo sono finalmente entrato al Conservatorio che è finito nel 2010.
Qual è stata la strada che ti ha portato a trasferirti qui a Bruxelles?
A Bruxelles ci sono arrivato inizialmente tramite l’Erasmus – le lezioni erano in fiammingo – e mi è servito per capire che qui era effettivamente possibile “vivere di musica”. Dopo aver finito i miei studi in Italia, a settembre 2010, mi ci sono quindi trasferito definitivamente con l’intenzione di insegnare, cosa che all’inizio ho anche fatto. Ma purtroppo con mia grande sorpresa ho scoperto che il mio Diploma Classico non era equiparabile a nessun titolo belga. A questo punto ho inciso il mio primo album “Alla ricerca delle radici”.
Riguardo alle motivazioni che mi hanno spinto a rimanere qui in pianta stabile, la principale è che gli artisti, in qualsiasi campo, vengono rispettati. Ciò che ancora oggi mi stupisce è che c’è sempre un pubblico interessato a quello che un artista fa, sia esso un musicista o un artista più in generale. Probabilmente il fatto che a Bruxelles ci siano le Istituzioni Europee e che quindi ci sia un benessere diffuso influenza molto questo aspetto. Penso che l’espressione artistica più valida di per sé nasca spesso dalla situazione opposta, quindi dal malessere e dalla sofferenza vissuta dall’artista, ma poi la sua diffusione innegabilmente è molto condizionata da un ambiente che abbia le risorse economiche per potersi permettere momenti dedicati all’arte e alla cultura. Bruxelles è un miscuglio di culture e linguaggi e questo arricchisce molto, inoltre da parte delle persone che conoscono un mestiere o un un’arte c’è molta più umiltà e propensione alla trasmissione del proprio sapere. Ti faccio l’esempio dei professori: in Italia spesso ti guardano dall’alto verso il basso, camminano un metro dal suolo, e si finisce per relazionarsi a loro come persone di potere. Qui è diverso: i professori vengono rispettati per la loro bravura che non mostrano per darsi delle arie ma per trasmettere le proprie conoscenze; danno molta più confidenza, ti invitano a cena e penso che molti siano un modello di umiltà.
Quali sono gli artisti che hanno più influenzato il tuo stile o che comunque ascolti con maggiore passione?
Credo che nel mondo del Jazz ci siano dei mostri sacri come Charlie Parker, Miles Davis e John Coltrane dai quali nessun artista possa prescindere. Ma ci sono altri artisti che a me piacciono molto uno di questi è Dexter Gordon che ad esempio, a differenza di Parker, è molto più melodico, tanto che qualsiasi suo brano è potenzialmente cantabile. Un altro che amo particolarmente è James Moody, sassofonista americano, che ancorché sia conosciuto, nel mondo del jazz, è comunque meno famoso degli altri citati. Ciò che lo contraddistingue è l’entusiasmo che trasmette, sia nel suonare che nel modo di porsi nei confronti del pubblico. È anche un grande flautista e scattista – una sorta di imitazione degli strumenti con la voce. Grazie a mia moglie ascolto anche altre cose diverse come la cantante Dianne Reeves ma non so perché ascolto poco jazz nuovo. Recentemente ho scoperto un sassofonista americano che si chiama Scott Hamilton e sto ascoltando anche dei dischi di Fabrice Alleman che è il maestro al conservatorio col quale ho studiato. C’è poi il disco di Hank Mobley, sassofonista degli anni ’60, intitolato “Soul Station” il cui brano d’apertura “Remember” potrebbe essere l’antologia del solo perfetto. Avendo poi un trio con l’organo ascolto progetti interessanti con questo strumento come quello di Wes Montgomery e Melvin Rhyne – di fine anni 50 – che suonano brani come “Moanin’” “Round midnight”, “Whisper not” e “Icaro”, suonato con l’hammond. C’è poi un altro disco “Boss Organ” del ‘93 sempre con Melvin Rhyne e con un Joshua Redman che quasi non sembra lui e che suona un po’ “à l’ancienne”. Infine sto ascoltando anche un pianista belga, di origini italiane, che si chiama Eric Legnini che suona con lo stile di Robert Glasper. Insomma direi che ascolto molte cose, ma non particolarmente recenti.
“Alla ricerca delle radici” è il tuo primo disco solista. Parlaci un po’ di questo tuo lavoro e di come dal processo compositivo sei passato allo studio di registrazione.
Questo disco è collocato in un periodo particolare della mia vita a cavallo far il 2010 e il 2011. Rappresenta un po’ l’anello di congiunzione fa il mondo del Conservatorio e la mia nuova vita a Bruxelles, dove ho scoperto veramente cosa fosse il jazz, rispetto all’idea che avevo io. Avevo la necessità personale di fissare qualcosa nel tempo e così “Alla ricerca delle radici” l’ho concepito come un lavoro molto introspettivo, suonato “in solo”. Ho creato questo link fra questi due mondi, da una parte reinterpretando alcune melodie molto belle del repertorio classico (non sassofonistiche) come il “Lascia che io pianga” o “Il lamento della ninfa”, e dall’altra dando libero sfogo alla creatività scrivendo alcuni inediti come Il “Re nascente”, “Orizzonte”, “Il respiro dell’elefante e altri. Ogni brano rappresenta un tassello del mosaico del periodo che stavo vivendo e che si sta ancora completando. Il processo compositivo è stato un po’ inusuale: mi prestarono due dischi di un bravissimo sassofonista svedese Akon Kornstadt nei quali – con l’ausilio di una una loop station – suonava il sassofono in una maniera minimalista. Mi sono ispirato a questi dischi e ogni brano è nato in maniera diversa con una sua storia Tre pezzi in particolare: “Il vento della cattedrale” “Orizzonte” e “Ballando in Si”, sono brani ispirati alla mia vita a Salerno. “Brufen (Clogged nose)”, invece, parla del mio arrivo a Bruxelles, con tutti medicinali che mia mamma mi aveva messo nella valigia. Tutto il disco è suonato interamente da me live e per inciderlo ci ho messo un anno, fatto di prove e lunghe sperimentazioni sia con il sax che con la loop station. L’ho registrato a casa, poi mixato in studio e ho avuto anche l’esigenza di registrare con la voce quattro storie/introduzioni a 4 brani, forse sulla scia della vena cantautorale iniziale della quale ho parlato prima.
Ci hai parlato del tuo amore per il Jazz. Vedi in futuro spazio per allargarti a nuovi orizzonti musicali o anche di collaborare con altri musicisti che non suonino il tuo stesso genere? Magari sulla scia di altri artisti emergenti come ad esempio Donny McCaslin, che ha letteralmente dominato il sound e il mood di “Blackstar”, ultimo disco di David Bowie, contribuendo a renderlo un capolavoro.
Come ho detto ho suonato prima classico e poi il jazz, ma quando arrivai a Bruxelles ho suonato anche della musica brasiliana insieme ad una band, in stile pop. Uno dei miei tanti sogni è suonare il sax insieme ad una cantante lirica e con un violoncello, ma anche scrivere una suite per trio jazz e quartetto d’archi, mischiando un po’ tutte queste realtà musicali ma in futuro chissà, perché no, anche restare aperto alla musica popolare.