Il giorno dopo a quello in cui Macron ha invitato a Parigi i rivali della crisi libica Serraj e Haftar, e alla vigilia di incontri meno controversi ma non meno significativi in programma sempre all’Eliseo con le popstar Bono e Rihanna, può non essere particolarmente originale, ma è pur sempre opportuno interrogarsi sulla direzione che la Francia sta prendendo sotto la guida del suo giovane e ambizioso Presidente.
Una riflessione non inutile in un’ottica sia italiana – congetture e polemiche si sono sprecate in questi giorni, visto l’affronto di un’iniziativa presa senza apparentemente consultarsi con i cugini d’Oltralpe – che europea, viste le aspettative e speranze riposte nell’elezione di un candidato dichiaratamente europeista alla massima carica di un Paese da sempre azionista di riferimento dell’Unione.
Una riflessione non facile, vista la natura poliedrica, se non proprio ambivalente del fenomeno-Macron. Una delle ragioni del suo successo in campagna elettorale, del resto, era stata proprio la sua capacità di mostrare un volto diverso a seconda dell’audience di riferimento, per non parlare di una piattaforma che di un certo sincretismo politico, simboleggiato dall’uso quasi ossessivo della formula ‘en même temps’, aveva fatto la sua cifra caratteristica. La capacità di parlare a bacini elettorali diversi e di coniugare priorità all’apparenza confliggenti resta senza dubbio una risorsa preziosa anche nel dopo-elezioni; ma dovrà giocoforza misurarsi con i fatti e i risultati concreti, e con l’esigenza di prendere decisioni, ovvero di effettuare scelte concrete inesorabilmente destinate ad avvantaggiare gli uni, e scontentare gli altri – con buona pace della mistica dei giochi a somma positiva.
In questa chiave, e limitando l’analisi allo scacchiere internazionale, tracciare bilanci a poco più di due mese dall’insediamento è certo prematuro; non così però provare a individuare le avvisaglie di linee di tendenza destinate a caratterizzare il corso delle iniziative macroniane negli anni a venire.
Una pista che si delinea con sufficiente chiarezza è quella che punta verso la ricerca di libertà d’azione, e il conseguente tentativo di occupare il massimo spazio disponibile. È una chiave di lettura dei primi passi della Presidenza Macron sul fronte delle relazioni con gli altri leader internazionali. Ne è testimonianza eloquente l’incontro con Putin a Versailles: un segnale abbastanza inequivocabile che la Francia con Macron (l’invito risaliva ai tempi di Hollande, che tuttavia con caratteristica irresolutezza aveva esitato a renderne possibile l’attuazione) intende proporsi come interlocutore di primo piano della Russia di Putin. Un segnale che da parte russa è stato recepito con comprensibile interesse, che fa da pendant all’indulgenza concessa alla postura muscolare assunta da Macron in conferenza stampa; e che non deve essere passato inosservato neppure a Berlino, finora protagonista indiscusso del dialogo con Mosca nel quadro del fantomatico formato-Normandia. Nello stesso senso possono essere lette le dichiarazioni di Macron sulla Siria: un reiterato e quindi deliberato chiamarsi fuori dalla retorica del regime change cara ai suoi predecessori; un revirement tutt’altro che facile o indolore, e tuttavia necessario per riguadagnare alla Francia un ruolo in un’area del Medio Oriente che da sempre Parigi rivendica come di sua pertinenza privilegiata quando non esclusiva – come sanno bene coloro che nel passato erano incorsi negli strali dell’Eliseo per avere provato a cimentarsi in scorribande proibite (secondo Parigi) in terra di Siria.
L’operazione-simbolo di questo recupero di visibilità, propedeutico nelle speranze dei suoi artefici ad un ritorno di grandeur, è senz’altro quella che ha avuto come obiettivo Donald Trump. Nel suo genere, un capolavoro per tempismo e spregiudicatezza: mentre il resto del mondo occidentale era impegnato a prendere le distanze – in senso politico ma anche fisico – dall’ingombrante titolare della Casa Bianca, e persino gli alleati di sempre, i britannici, esitavano a confermare l’invito per una visita di Stato che appare foriera di sicure contestazioni (e di qualche probabile gaffe protocollare), ecco che il neo-insediato Presidente francese sorprende tutti allestendo una due giorni parigina che gli è sicuramente valsa l’ammirazione e la riconoscenza del suo omologo americano – un ‘tesoretto’ politico di non poco conto, malgrado tutto.
In questa prospettiva, era quasi inevit abile che le attenzioni di Macron si rivolgessero anche alla Libia. Avido di nuovi spazi utili a consolidarne la reputazione di protagonista sulla scena internazionale, la Libia deve essergli sembrata terra di nessuno (con buona pace delle opposte percezioni, e rivendicazioni italiane al riguardo); e le opportunità legate ad un gesto non privo di significati (era da un po’ che si provava a imbastire un incontro tra Serraj e Haftar, senza riuscirci) hanno prevalso sul rischio che questa sua iniziativa finisca per essere consegnata al catalogo delle intenzioni buone, ma velleitarie di cui è purtroppo costellata la Libia del dopo-Gheddafi.
Un secondo, importante dato che pare affermarsi come caratteristico della Presidenza Macron è l’eclissi, quantomeno parziale, dell’Ue. A dispetto del suo europeismo dichiarato, l’Europa è del tutto assente non solo dalle iniziative del nuovo Capo di Stato francese, ma anche dall’orizzonte intellettuale e politico che le ispira e definisce.
La France d’abord: potrebbe essere lo slogan di questi primi mesi di Presidenza – un’assonanza con la retorica ‘America firster’ d’Oltre Atlantico che spiegherebbe l’intensità di certe strette di mano, se non si spiegasse innanzitutto con un senso di eccezionalità che è, esso stesso, caratteristicamente transalpino.
La circostanza può sorprendere, ma fino a un certo punto. Da una parte, Macron è stato eletto Presidente dei francesi, non dell’Unione Europea; è quindi più che naturale che si concentri sui primi malgrado il suo attaccamento per la seconda – per parafrasare il famoso detto: amica Europa sed magis amica Gallia. Dall’altra, un atteggiamento distaccato è quello che più si confà allo stato forse non più pericolante come qualche mese addietro, ma pur sempre convalescente della nostra Unione, in cui il rischio di ritorni di fiamma populisti non si è affatto dissipato del tutto. Nella salute ancora malferma in cui il progetto d’integrazione continua a versare, le condizioni per elaborare grandi disegni e iniziative dal respiro ambizioso non paiono mature. Nell’attesa di tempi migliori, la via che conduce a Bruxelles visioni e impulsi politici di cui le istituzioni hanno più che mai bisogno ma non paiono attrezzate a generare da sé resta quella delle capitali, e dei leaders nazionali. Meglio ancora se quelle capitali, e quei leaders, sono in grado di prendere Bruxelles per il verso giusto – e qui la retorica macroniana potrebbe contenere degli insegnamenti utili a chi volesse apprenderli, al di qua e al di là delle Alpi.