Gli Accordi di Parigi nascono nel dicembre 2015, sottoscritti da 195 Stati, e basati proprio sull’intesa, costruita dall’ex presidente americano Barack Obama, tra i due maggiori produttori di CO₂: Cina e Stati Uniti (che con la Presidenza Trump hanno scelto di abbandonare gli accordi, con conseguente stop ai finanziamenti per il fondo internazionale sul clima).
Tra i punti fondamentali degli Accordi: limitare l’aumento della temperatura media globale sotto i 2˚, ridurre le emissioni in conformità con soluzioni scientifiche più avanzate, costruire resilienza nelle società vulnerabili ai mutamenti del clima, revisionare periodicamente i progressi e stabilire obiettivi sempre più ambiziosi. Gli Stati firmatari hanno concordato anche di assistere i paesi in via di sviluppo affinché svolgano politiche a favore dell’ambiente, riducendo le emissioni e introducendo fonti energetiche meno inquinanti. Un’assistenza che prevede la mobilitazione di 100 miliardi di dollari entro il 2020. Nello specifico, gli Stati Uniti si erano impegnati a ridurre la produzione di CO₂, entro il 2025, del 26/28% rispetto al 2005.
L’attuale presidente Usa critica le misure troppo morbide verso i grandi inquinatori (India e Cina) e giudica l’Accordo controproducente per l’economia americana, puntando a ridiscuterlo assicurandosi condizioni più eque. Sull’effettiva uscita degli Usa dagli Accordi, Ettore Greco, vicepresidente vicario dello Iai (Istituto Affari Internazionali), sottolinea che ″ci sono forze non indifferenti che spingono nella direzione opposta a quella dell’amministrazione Trump″, riferendosi ai movimenti ecologisti, a quelle amministrazioni locali determinate a proseguire le politiche ambientali, come la California, e ad alcune grandi imprese che vogliono sostenere l’uso di energie verdi. ″Hanno capito che queste politiche ambientali, valorizzando le energie pulite, possono anche portare dei profitti″.
Le motivazioni alla base della decisione sono le più svariate: l’insofferenza verso trattati che limitino la sovranità americana, e la necessità di realizzare le promesse fatte in campagna elettorale. Trump si rivolge infatti al mondo del business (togliendo i vincoli sulle emissioni agevola le imprese) e all’industria carbonifera, di cui vuole salvaguardare i 50.000 posti di lavoro, a difesa dei quali si era levato prima dell’elezione, contro le posizioni dell’avversaria Hillary Clinton. La decisione è inoltre in linea con il concetto di “America First”. Ettore Greco specifica: ″Trump vuole concentrare tutte le risorse negli Stati Uniti, in opposizione all’idea di impegnarsi all’estero in attività dispendiose″. Numerose le conseguenze: ″Ci sono due rischi più o meno collegati. Il primo è che ci sia un minore impegno da parte degli altri, e il secondo è che ci sia un effetto emulazione″ afferma Greco, riferendosi all’arresto dalla ratifica del trattato in Turchia. Ad Ankara, infatti, il parlamento ha chiarito che l’approvazione riprenderà solo quando il paese verrà riconosciuto in via di sviluppo, con conseguente esenzione dalle multe. Il ritiro degli Stati Uniti porterà inoltre a un terzo problema: la mancanza delle risorse finanziarie che gli USA avrebbero devoluto ai paesi in via di sviluppo, rendendo la realizzazione del trattato più difficoltosa. La questione continua però ad evolversi, facendo sperare in una ritrattazione da parte di Trump: il 14 luglio, il presidente americano ha dichiarato che ″qualcosa può succedere″.
Eleonora Artese