Theresa May non avrà domani l’investitura che aveva chiesto ai cittadini britannici per condurre una “hard Brexit”. Ragioniamo ovviamente sui sondaggi, che tante sorprese hanno riservato negli ultimi anni, ma in questo caso una cosa ci convince: vanno tutti nello stesso senso. Quale più, quale meno, danno comunque tutti il segnale di un movimento di avvicinamento tra le due forze politiche maggiori in Gran Bretagna, il vantaggio di un gap di 20 punti dal quale la premier è partita si è bruciato, e con esso il mandato per condurre un negoziato duro con l’Unione europea.
Domani sera sapremo come sarà andata con precisione, ma qualche considerazione possiamo tentarla già oggi.
Il primo dato che emerge è che i due partiti maggiori, conservatori e laburisti, faranno piazza pulita dei voti. Liberali, populisti dell’Ukip, verdi e altre forze sono relegati a percentuali minime. Il sistema sostanzialmente bipolare che i britannici hanno scelto ha retto. Ma attenzione, non è la stessa cosa di sempre. L’Isola nel Mare del Nord non è così diversa dal resto d’Europa (e di buona parte del Mondo), solo che le spinte populiste sono state assorbite dalle forze maggiori, ed in particolare dai conservatori, che per mantenere un partito grande, per evitare scissioni o perdite a destra, hanno accettato di pagare il prezzo di perdere il prestigio storico di partito di qualità, di “statisti” che lo ha accompagnato per anni (anche se con evidenti alti e bassi). Le spinte populiste sono dunque oramai “dentro” il sistema politico tradizionale britannico, non hanno più bisogno di guardare ad altre forze, come l’Ukip di Nigel Farage, oramai ridotto a piccola cosa, non essendo stato in grado di offrire una prospettiva di governo dopo aver spinto il Paese guidato dall’incauto (o forse inetto) David Cameron a compiere la scelta politica più impegnativa degli ultimi decenni.
I Liberali, unica forza schiettamente europeista, navigano verso i minimi storici. Dopo l’alleanza con Cameron e la tempesta della Brexit non sono ancora riusciti a recuperare una credibilità tra gli euro-favorevoli, e dunque non sembra che diventeranno una forza d’opinione rilevante nel prossimo Parlamento. D’altra parte hanno anche annunciato, con coerenza, che non si alleeranno con nessuno dei partiti maggiori, ambedue decisi a procedere, anche se in modi diversi, verso la Brexit.
Jeremy Corbyn è la grande sorpresa per tutti. Non crediamo di sbagliare di molto se diciamo che nessuno tra gli osservatori più citati, nel Mondo intero, aveva previsto che avrebbe potuto portare il suo partito ad un risultato anche solo decente in queste elezioni, le prime alle quali partecipa come leader, pur dovo aver realizzato un vero boom nelle iscrizioni al partito. Ha però avuto dalla sua qualche elemento a sorpresa, qualcuno preesistente e non analizzato a sufficienza e qualcuno arrivato lungo la strada.
In sé Corbyn ha il fatto di essere un politico “nuovo”. L’età conta poco, basta guardare ad esempio negli Usa il successo che Bernie Sanders (personaggio politico del tutto diverso da Corbyn, ma anche lui ‘anziano’) ha raccolto tra i giovani. Il leader Labour fino a un paio di anni fa era praticamente sconosciuto ai cittadini britannici. Era un funzionario di partito, uomo colto, buono per i convegni, ma che non ha mai avuto una dimensione pubblica rilevante. Ha rivoluzionato il partito, ha sepolto forse definitivamente Tony Blair ed i blairisti, ha cancellato un’epoca e tenta di costruirne una diversa. Parla una lingua nuova. Non stiamo dicendo che potrà essere una grande leader e tanto meno un grande primo ministro (obiettivo, ad oggi, piuttosto remoto) ma ha cambiato la narrazione della sinistra britannica e promette determinazione e ragionevolezza. E il nuovo paga, nella politica di questi anni.
Dalla sua Corbyn ha avuto poi due altri fattori: la Brexit e il dramma del terrorismo. Sulla prima questione gli umori dei britannici sono mutati. La maggioranza sembra essere sempre dell’opinione che se si è votato per farla allora va fatta, nel rispetto di un principio democratico, ma sempre una maggioranza che pare allargarsi ritiene che sia una scelta sbagliata. Dunque l’elmetto che si è messa in testa Theresa May non convince più tanti, anche perché sempre più chiari diventano gli enormi problemi e le grandi incertezze di fronte alle quali si trova e si troverà il Paese a causa della scelta di separarsi dall’Ue. Anche i dirigenti che May si è messa attorno non sembrano convincere gli elettori. Corbyn pure lui dice che la Brexit va fatta, ma senza l’elmetto, cercando il massimo possibile di intesa con l’Ue, tentando di salvare alcune conquiste fatte in questi oltre quaranta anni di convivenza. Con ragionevolezza, insomma.
Il terrorismo è l’evento del quale tutti avremmo fatto volentieri a meno, ma che sta influenzando sempre più la campagna. Nel senso che May viene vista da molti come inadeguata alla sfida, perché gli attentati non si fermano, perché dire che “enough is enough” lascia trasparire che forse fino ad oggi non si è fatto proprio tutto quello che si sarebbe potuto fare. Come evitare il taglio di 20mila agenti che proprio la premier, nei sette anni al ministero degli Interni, ha sostenuto, o rendere un po’ più efficienti i servizi di intelligence.
Domani sera sapremo cosa pensano gli elettori britannici, ma questi elementi, certamente, continueranno a solcare la politica britannica, comunque vada.