di Enea Boria e Thomas Fazi
Il primo atto delle elezioni presidenziali francesi si è ormai consumato e abbiamo sotto gli occhi l’esito da incubo di questa partita politica: il secondo turno che si celebrerà a breve sarà una contesa tra l’opzione capofila delle montanti destre radicali europee, il Front National di Marine Le Pen, e un esponente della destra economica filo-finanziaria più estrema, che con il suo programma di assoluta continuità con le politiche di austerità e di privatizzazione di questi anni ha immediatamente raccolto il sostegno delle istituzioni europee, di buona parte dei governi nazionali – da Renzi a Tsipras, passando per la Merkel – e ovviamente dei mercati finanziari, che hanno espresso la loro approvazione attraverso un immediato rialzo delle borse e dell’euro.
Mentre nelle sinistre istituzionali e di movimento dell’intero continente – in particolare in Italia – è scattata subito la rincorsa a sostegno di una posizione neofrontista, da fronte popolare/repubblicano attualizzato ai tempi, costruita sull’idea che sia giusto sostenere e votare qualsiasi cosa pur di arginare “il fascismo”, sta facendo molto discutere la decisione di Mélenchon di non dare ai suoi elettori una esplicita indicazione di voto, lasciando loro libertà di coscienza al secondo turno. In questi giorni, però, diverse voci fuori dal coro – anche in Italia – hanno difeso la scelta di Mélenchon, sostenendo che tra Macron e Le Pen non esiste un’opzione “votabile” e che chi voglia costruire una alternativa popolare dovrebbe perseguire una strada autonoma, senza cadere nella trappola del menopeggismo o del “voto utile”. Personalmente, riteniamo che il rifiuto della tattica menopeggista sia, in questa fase storica, fondamentale e vorremmo sforzarci di qualificare il perché di questa scelta che, pure, farà inviperire molti.
Riteniamo corretta l’analisi sviluppata da Emiliano Brancaccio, secondo la quale il Front National e in generale i partiti di impronta lepenista sono il sintomo delle politiche deflattive portate avanti in questi anni, che hanno determinato un peggioramento drammatico delle condizioni di vita di ampie fette della popolazione – in Francia e altrove – e di cui Macron rappresenta la prosecuzione se non addirittura la radicalizzazione. Per dirla diversamente, i lepenisti sono il sintomo delle politiche che Macron incarna: pensare dunque di arginare i sintomi votando le cause dei sintomi stessi appare quanto meno paradossale. Come scrive Brancaccio: «Chi a sinistra invita a votare il “meno peggio” non sembra comprendere che nelle condizioni in cui siamo il “meno peggio” è la causa del “peggio”. Le Pen e i suoi epigoni sono sintomi funesti, ma è Macron la malattia politica dell’Europa. Scegliere uno per contrastare l’altra è un controsenso». Basti sapere che Macron ha già annunciato, in caso di vittoria, drastici tagli alla spesa pubblica, il licenziamento di 120,000 dipendenti statali e l’introduzione di una nuova legge sul lavoro ancora più precarizzante della funesta loi travail.
Si potrà obiettare che è facile fare questi ragionamenti quando non saremo noi ad essere chiamati a votare l’8 maggio. Ma sarebbe un errore. La débâcle francese riguarda tutti noi: un domani, infatti, potremo benissimo ritrovarci nella stessa drammatica situazione in cui oggi si trovano i francesi. In questi anni stiamo assistendo al lento collasso dell’intera Unione europea e dei quadri politici di quasi tutti i paesi membri, in un rapidissimo e tragico effetto domino di cui ancora non si intravede la fine. In questa cornice, le “sinistre radicali” europee hanno accumulato uno tragico ritardo storico nell’analizzare le cause di questo collasso, ritrovandosi quindi a dover contendere alle destre il campo delle possibili soluzioni, che – come dimostra la campagna di Jean-Luc Mélenchon – non possono che assumere necessariamente un profilo come minimo euroscettico, data la sempre più palese irriformabilità dell’Unione europea.
Il ridicolo 6% totalizzato dal Partito Socialista francese conferma, poi, la tendenza alla progressiva “pasokizzazione” di tutti i partiti socialisti del continente, a testimonianza del catastrofico fallimento della cosiddetta terza via social-liberista. Qualcosa di molto simile è accaduto in Olanda poche settimane fa, dove, a fronte di un mancato sfondamento elettorale del partito di estrema destra PVV, si è ugualmente “pasokizzato” il PVDS di Jerome Dijsselbloem; ancor prima una polarizzazione molto simile ha avuto luogo nelle elezioni presidenziali austriache, nelle quali il candidato verde è riuscito a spuntarla di stretta misura in una tornata elettorale (che è stato necessario ripetere) nella quale il partito di estrema destra FPO è andato vicinissimo a conquistare la presidenza della repubblica, mentre i socialdemocratici sono usciti fortemente ridimensionati. Una simile polarizzazione sarà al centro delle elezioni politiche in Italia entro pochi mesi.
Purtroppo nella maggior parte dei paesi europei l’opzione prioritaria e insieme l’unica concretamente praticabile, volendo esprimere un voto, sarà tra due tipi diversi di destra, una delle quali sarà indicata dall’establishment come nuovo “fronte repubblicano”, mentre l’altra riuscirà a non apparire meno impresentabile a qualsiasi sincero democratico. Nel nostro caso la minaccia “populista” è rappresentata dalla possibilità di un governo giallo-verde che potrebbe finire rapidamente ai ferri corti con la UE.
La tragica pantomima dei “patrioti europei” organizzata dal PD di Milano al corteo del 25 aprile mira esattamente a questo scopo: riorganizzare un immaginario simbolico che funga da identità politica surriscaldata al calor bianco da utilizzare come strumento per organizzare un fronte di opposizione (anche eterogeneo) nei confronti di chiunque minacci la stabilità del sistema. Purtroppo appare evidente che gli altri pezzetti della sinistra e del centrosinistra, rispetto a tale operazione, si avviano a dimostrarsi a dir poco “codisti”, praticamente senza eccezioni.
Ma non è un problema che riguarda solo l’Italia. La politica dell’intero continente si avvia ad assumere una forma neofrontista, in cui le contese elettorali saranno sempre più caratterizzate da fronti popolari creati ad hoc per arginare la presunta minaccia fascista e/o populista. Data tale cornice occorre essere chiari: questa politica dei fronti repubblicani o popolari che dir si voglia, nel contesto presente, è motivata? Ci troviamo veramente di fronte a una minaccia fascista contro la quale siamo tutti tenuti a prendere le difese dello status quo, per quanto esso ci ripugni? Oppure ci troviamo di fronte a una cinica strumentalizzazione dell’antifascismo, visto dall’establishment come difesa di ultima istanza del proprio potere e dei propri interessi? E tra i contestatori dello status quo, qual è il reale profilo politico prevalente?
Per trovare una risposta a queste domande occorre non essere pressapochisti nella definizione di fascismo. Il fatto che oggi il termine sia ormai slegato da qualunque significato preciso – sono ormai comuni nel dibattito pubblico le accuse di reciproco fascismo: vedasi per esempio Erdogan che, accusato da molti europei di essere un fascista, risponde accusando gli europei di essere a loro volta fascisti – la dice lunga su quanto le categorie del pensiero politico siano andate in malore nel corso degli ultimi anni, e di quanto le contrapposizioni ideologiche di un tempo abbiano oggi assunto forme ipocritamente strumentali.
A sinistra, per alimentare questa logica neofrontista, vengono sistematicamente additati certi “sintomi morbosi” della Le Pen, quali la sua politica nei confronti dei flussi migratori e della minaccia terroristica e in alcuni casi anche la sua posizione nei confronti della UE e della moneta unica. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, dovrebbe essere ormai evidente a tutti quanto sia ridicolo definire nazionalista chiunque contesti l’Europa (e comunque bisognerebbe precisare cosa si intende per nazionalismo, termine che può assumere anch’esso innumerevoli significati); lo stesso antieuropeismo della Le Pen ha molto più a che vedere con il tradizionale sovranismo di stampo gollista che con il nazionalismo aggressivo di stampo novecentesco.
Il primo punto merita invece un’analisi più attenta. È innegabile che il programma della Le Pen sia improntato ad un securitarismo estremo e sia effettivamente segnato da un taglio pesantemente xenofobo e islamofobo. Ma questi elementi sono sufficienti per concludere che il profilo politico della Le Pen sia fascista in senso stretto? Non si tratta di un semplice esercizio retorico: una posizione così “estrema” quale «meglio della Le Pen chiunque» – posizione che viene giustificata adducendo appunto il fascismo della candidata – merita come minimo un’analisi che vada al di là degli slogan e dei riflessi pavloviani comuni a certi sinistra.
Come ci insegnano gli storiografi e i filosofi del pensiero politico, definire il fascismo richiede un’analisi multidimensionale; bisogna cioè guardare sia alla dimensione culturale-ideologica di un movimento che alla sua dimensione istituzionale e organizzativa. Lo storico italiano Emilio Gentile ha dedicato buona parte della propria vita allo studio del fascismo. Egli fornisce una definizione sintetica e multidimensionale del fascismo che consideriamo essere la più corretta:
Il fascismo è un fenomeno politico moderno, nazionalista e rivoluzionario, antiliberale e antimarxista, organizzato in un “partito milizia”, con una concezione totalitaria della politica e dello Stato, con una ideologia a fondamento mitico, virilistica e antiedonistica, sacralizzata come religione laica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunità organica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno Stato corporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenza e di conquista, mirante alla creazione di un nuovo ordine e di una nuova civiltà.[1]
Il fascismo, insomma, è stato una cosa ben precisa; non si può dunque procedere a casaccio nel definire cosa sia il fascismo qui ed ora.
Dentro il Front National così come nella Lega ci sono anche elementi fascistoidi? Certo che sì.
Ci si deve opporre al FN e alla Lega? Certo che sì, senza dubbi e infingimenti.
Possono nel loro insieme essere considerati partiti fascisti? No.
Secondo una definizione circostanziata e precisa di cosa sia il fascismo, infatti, la conclusione è che abbiamo a che fare con delle pessime destre radicali, i cui programmi elettorali e le loro prassi politiche, organizzative e istituzionali quotidiane, però, non possono essere definite fasciste in senso stretto. Dov’è l’organizzazione in milizia e la pratica sistematica e teorizzata della violenza? Dov’è la fossilizzazione corporativa del conflitto sociale, se nel programma di FN non c’è l’abolizione del sindacato e/o l’imposizione di un sindacato unico controllato dallo Stato? Dov’è la concezione espansionistica della nazione?
Inoltre, facciamo notare che i testi di più alta densità teorica e ideologica in favore della riforma costituzionale promossa da Renzi e fortunatamente bocciata al referendum, in particolare quelli di Cassese e Bassanini, partivano entrambi da un presupposto analitico assolutamente esplicitato: l’idea che la società non sia (più) divisa in classi sociali e che non vi siano quindi divergenze di interessi. La domanda che vogliamo quindi porre alle coscienze è dunque la seguente: siamo sicuri che sia meno fascistizzante chi ha approvato il decreto Minniti, che istituisce un diritto parallelo per i non nativi, chi ha militarizzato la frontiera di Ventimiglia (stiamo parlando in entrambi i casi di partiti di governo afferenti al PSE) e chi guarda alla società con occhio organicista (questo vuol dire non credere nelle classi sociali) rispetto a chi è sbirrescamente xenofobo?
In Europa i partiti numericamente rilevanti che possono essere definiti fascisti, al momento, sono in realtà pochi: Jobbik in Ungheria, Alba Dorata in Grecia e pochi altri con numeri rilevanti a livello nazionale. Al di fuori di questi casi limite esistono vari partiti che hanno senza dubbio effetti fascistizzanti sulla società. Ma sia chiaro: il securitarismo sbirresco e xenofobo del FN e/o della Lega è nei fatti né più né meno fascistizzante della distruzione del tessuto sociale creato dai vari PD e Macron e dai loro rispettivi reggicoda, con l’aggravante – come detto – che il primo è in buona parte una conseguenza del secondo. In questo senso, stupisce il fatto che la maggior parte delle persone (anche a sinistra) non abbia alcun dubbio sul fatto che l’arretramento in materia di diritti civili ed individuali, indubbiamente esecrabile, propugnato dal Front National e dagli altri partiti della destra radicale sia più grave – a prescindere – dell’arretramento in materia di diritti sociali ed economici (e conseguentemente delle condizioni materiali di vita di milioni di persone) concretamente operato in questi anni da parte di tutti quei partiti che oggi invocano i fronti popolari in chiave “antifascista”. Che sul piano delle politiche sociali e del lavoro il programma del Front National sia molto più “progressista” di quello di Macron è palese, come viene riconosciuto anche dagli stessi critici della Le Pen. In questo senso, il sostegno aprioristico a Macron è la dimostrazione plastica di come la sinistra istituzionale abbia ormai del tutto abbandonato il terreno dell’analisi di classe – e la difesa degli interessi delle classi che in teoria dovrebbe rappresentare – a favore «una concezione liberal-individualista dell’emancipazione», come scrive Nancy Fraser, al punto che pur di difendere i diritti individuali dalla minaccia “fascista” è pronta ad accettare riduzioni apparentemente senza limiti in materia di diritti sociali (se un limite esiste fatecelo sapere).
Sarebbe altresì il caso di ricordare che l’antifascismo storicamente dato era intrinsecamente legato alla battaglia per la giustizia sociale e per l’abbattimento delle diseguaglianze e delle discriminazioni di ogni tipo, tanto razziali quanto di classe. Al contrario, come scrive Stefano Bartolini, un antifascismo ridotto a vago antirazzismo e alla difesa di specifiche minoranze oppresse, «slegato dalle sue ragioni culturali, politiche ed economiche» – quale è l’antifascismo propugnato oggi tanto dall’establishment quanto dalla sinistra istituzionale – finisce inevitabilmente per fare da stampella all’ideologia liberale e allo status quo. Un antifascismo “di sistema”, insomma, che poco o nulla ha a che vedere con la tradizione della Resistenza e anzi viene utilizzato per giustificare politiche reazionarie di ogni risma, finalizzate proprio allo smantellamento di quelle tutele sociali ed economiche garantite dalla nostra Costituzione – quella, sì, realmente antifascista. È evidente, poi, che la logica dei fronti popolari che oggi viene usata contro le destre, domani, con qualche rimodulazione, potrà benissimo essere usata contro una minaccia “populista” di sinistra.
Come detto, non si tratta ovviamente di difendere le politiche della Le Pen o di qualunque altro partito della destra radicale, né di scegliere la demolizione dei diritti civili rispetto alla demolizione dei diritti sociali (o viceversa). Il punto è esattamente questo: se ci facciamo trascinare sul terreno della dicotomia diritti sociali versus diritti civili, status quo versus “fascismo”, ecc. la partita è già persa in partenza. Come scrive Brancaccio: «La storia insegna che diritti sociali e diritti civili arretrano o avanzano insieme. Sostenere un candidato che vuole cedere altri diritti sociali in cambio di presunti avanzamenti sul versante dei diritti civili è un modo ulteriore per lasciare che i movimenti reazionari continuino a fare proseliti tra le fasce sociali più deboli, con effetti a lungo andare negativi per le stesse conquiste in tema di libertà individuali».
In questa tragica fase politica dobbiamo invece tornare ad essere autonomi nella nostra capacità di analisi e di pensiero, costruendo «una chiara alternativa dialettica a entrambe quelle opzioni politiche». Solo così saremo in grado, forse, di costruire una reale alternativa popolare. La scelta di Jean-Luc Mélenchon di non dare un’indicazione di voto al secondo turno va letta in quest’ottica: l’efficacia del suo movimento consiste proprio nel fatto di essere percepito come forza realmente alternativa tanto al sistema quanto alle destre; buttare al vento quella credibilità sostenendo oggi Macron sarebbe una mossa suicida, tanto più che la vittoria di Macron è garantita a prescindere dai voti di Mélenchon.
Se non seguiamo l’esempio di Mélenchon, rischiamo veramente derive fascistoide, sia che oggi compiamo la sciocchezza di appoggiare i lepenismi vari, sia che ci illudiamo di arginarli votando la continuità neoliberale rappresentata dai vari Macron. Entrambi sono fascistizzanti nella stessa misura, tenendo fermo il principio che i primi non sono definibili fascisti in senso stretto. Respinta la logica strumentale dei fronti repubblicani/popolari tirata in causa dagli interessi schierati in difesa dell’ordine costituito, chiarito che non si può e non si deve lasciarsi trascinare a sostegno di Macron, occorre altrettanto essere chiari che si deve essere totalmente autonomi e indipendenti da – e ostili a – coloro che l’ordine costituito lo contestano dal punto di vista delle destre scioviniste, che come sempre rappresentano “il piano B” dei ceti dominanti. Sarebbe infatti un clamoroso errore tattico e comunicativo permettere ai liberisti di poter appiattire la rappresentazione dell’intera dialettica politica in uno scontro tra loro e i reazionari, rimuovendo dal dibattito pubblico gli argomenti di qualsiasi reale opposizione di segno popolare, democratica, non xenofoba, che contesti i rapporti sociali a livello economico.
I lepenisti sono i nemici ideali dei liberisti: non vinceranno mai e in ultima istanza non minacciano realmente gli stessi interessi che i liberisti difendono e rappresentano, perché non rimettono al centro del proprio progetto il ruolo di un forte interventismo pubblico e statale per perseguire la piena occupazione, redistribuendo radicalmente risorse e profitti, arrivando anche a mettere in discussione i rapporti di classe e la proprietà privata delle industrie strategiche o degli istituti finanziari. Questa è la vera e profonda differenza tra le varie istanze di sovranità che si alzano dai popoli in questa epoca:
- le destre liberaliste (incluse le “sinistre” social-liberiste) intendono dissolvere lo Stato nel nome di interessi privatistici facendo transitare la sovranità dagli Stati, democraticamente contendibili dai popoli, ai mercati e alle istituzioni sovranazionali che ne sono espressione;
- la destra sciovinista intende transitare dal mercantilismo subìto dalla Germania ad un mercantilismo autonomo e a tal fine sovrappone l’idea di Stato autoritario a quella di Stato forte;
- la sinistra, infine, dovrebbe vedere lo Stato come uno strumento per trasformare i rapporti economici e quindi la società, in modo da superare la condizione di estrema subordinazione e esclusione sociale dei ceti impoveriti.
In questo contesto, è fondamentale evitare di avallare una logica che riduce tutta la dialettica politica ad uno scontro tra due destre. Il richiamo ai fronti popolari sbandierata dai liberisti è ipocrita e strumentale; nello stesso tempo le destre lepeniste, ben lungi dall’essere una soluzione, rimarranno sempre niente altro che una rimodulazione delle stesse ingiustizie. Una alternativa popolare è oggi incarnata da pochissimi soggetti ma in potenza essa ha tutte le carte in regole per diventare egemonica nella società, a patto di uscire dai ristretti margini delle sinistre storiche e di adottare una strategia populista-democratica, come quella cui ha fatto recentemente ricorso Jean-Luc Mélenchon, che pur non arrivando (per pochissimo) al ballottaggio ha comunque conseguito un risultato storico.
È questa, a nostro avviso, la sola strada sulla quale abbia senso insistere.
[1] Emilio Gentile, Fascismo: Storia e interpretazione, Laterza, 2002.