Bruxelles – Dopo il referendum che ha trasformato la Turchia in una repubblica presidenziale si vede il Paese euro-asiatico più distante dall’Ue. Sono in tanti a ripeterlo, dentro il Parlamento europeo e nelle capitali. Si considera la svolta di Ankara come troppo incompatibile con regole e principi europei. Per il ministro degli Esteri belga, Didier Reynders, la linea rossa resta il ripristino della pena di morte. Il suo collega austriaco ha chiesto lo stop ai negoziati di adesione per la Turchia. Il problema è che l’accelerazione del processo negoziale è tra le condizioni previste dall’accordo per la gestione dei flussi migratori. L’Ue si impegna a fornire contributi economici per la gestione dei migranti su suolo turco, a concedere la liberalizzazione dei visti non appena tutte le condizioni saranno soddisfatte, e ad aprire altri capitoli negoziali. In cambio Ankara tiene arginata la rotta migratoria occidentale, quella chiusa a fatica e non senza polemiche dall’Europa. Se saltano le condizioni dell’accordo, è l’accordo tutto che rischia di essere messo in discussione.
A Bruxelles sanno bene che l’intesa Ue-Turchia ha rappresentato finora un disincentivo per mettersi in marcia, un argine contro il flusso dei migranti. Ufficialmente la vittoria (contestata) di Recep Tayipp Erdogan cambia poco: il leader turco poteva giocare la carta dell’immigrazione per ricattare l’Europa già prima del referendum. Però, se le mosse dell’adesso pleni-potenziario presidente dovessero spingere il Paese sempre più in là del tollerabile, diverrebbe difficile per l’Europa non chiudere le porte in faccia ad Ankara. E a quel punto? A quel punto la prima cosa che salta agli occhi sono i numeri. Prima dell’accordo Ue-Turchia arrivavano in Grecia anche fino a 10mila migranti al giorno. Adesso il minimo raggiunto è 43, ma i numeri stanno già aumentando. L’ultimo bollettino di Frontex, l’agenzia responsabile per il controllo delle frontiere esterne, parla di 1.690 arrivi su suolo ellenico a marzo (56 persone al giorno, di media), circa il 50% in più degli sbarchi di febbraio. La Grecia è anche l’anello economicamente debole d’Europa e di Eurolandia: spendere per cercare di controllare una nuova crisi è un lusso che non può permettersi, per lo stato dei conti.
E’ presto per dire cosa succederà, ma l’alleanza tra Turchia ed Europa, se era traballante prima, lo diventa a maggior ragione adesso. Tutto dipenderà dalle decisioni che prenderà la Turchia d’ora in avanti, ma dal Parlamento europeo è già stata espressa l’intenzione di non concedere favori sui visti né di continuare con i negoziati di adesione. Una presa di posizione chiara, in nome dei valori alla base dell’Ue, che però rischia di avere un conto salato. L’Unione europea non ha interessi a far saltare l’accordo sull’immigrazione né, di conseguenza, le singole parti di cui è costituito. Farlo significherebbe fornire ad Ankara il pretesto per sciogliere il patto. E sarebbe un problema. La solidarietà tanto invocata dal presidente della Commissione europea non c’è, o è troppo poca. Riaprire il fronte dell’Egeo e, peggio, quello dei Balcani occidentali, sarebbe insostenibile perché ingestibile. Vorrebbe dire paralizzare Schengen, e dividere l’Europa.
La Commissione europea prova a mostrare i muscoli. “La Turchia valuti con molta attenzione le prossime mosse”, avverte il capo del servizio dei portavoce dell’esecutivo comunitario, Margartis Schinas. Cosa voglia dire non è chiaro. Certo è che la pena capitale non è un’opzione. “Di ripristinare la pena di morte neanche ne parliamo. E’ contraria ai nostri valori. Una reintroduzione sarebbe un chiaro segnale del fatto che la Turchia non vuole essere parte dell’Ue”. Schinas ha quindi espresso la volontà della Commissione europea per l’avvio di “indagini trasparenti” sulle irregolarità denunciate dagli osservatori internazionali in occasione del voto di domenica.