di Andrea Baranes
“Compensi senza crisi – I big delle banche incassano 144 milioni”; “Banche europee – Un quarto dei profitti fatti nei paradisi fiscali” – Due notizie apparse su la Repubblica a pochi giorni l’una dall’altra. Da un lato remunerazioni sempre più alte per la dirigenza delle banche, dall’altro utili che fuggono verso giurisdizioni di comodo. Riguardo il primo punto, difficile sostenere che la crescita degli stipendi sia legata a risultati particolarmente positivi. In Monte Paschi gli stipendi del top management sono cresciuti del 44% in un solo anno. Per le banche italiane, la remunerazione degli amministratori di vertice è cresciuta di oltre il 13%. Davvero niente male. In termini assoluti, a guidare i compensi sono Unicredit, con 28 milioni e Intesa San Paolo con 42 milioni.
E proprio Unicredit e Intesa San Paolo sono i due istituti che compaiono anche nell’inchiesta di Oxfam, che ha scoperto come per le venti più grandi banche europee poco più di un euro su quattro di utili è realizzato nei paradisi fiscali. Un dato tanto più “curioso” se messo in relazione con il fatto che unicamente il 12% del fatturato proviene da filiali in quelle stesse giurisdizioni, e che unicamente il 7% dei dipendenti vi lavora. Le prime venti banche europee hanno dichiarato di avere fatto più utili nel solo Lussemburgo che in Gran Bretagna, Svezia e Germania messe insieme. Un paradosso che evidenzia la dimensione e la portata delle pratiche di “ottimizzazione del carico fiscale” o più semplicemente di elusione, spesso messe in piedi sfruttando ogni possibile normativa – o la sua assenza – per pagare meno tasse possibili. D’altra parte la differenza tra elusione ed evasione fiscale è proprio che la prima è legale mentre la seconda no. Una differenza che può consistere nell’interpretare nel “modo giusto” una determinata normativa.
Tutto legale, quindi, così come è assolutamente lecito riconoscere ai vertici delle banche gli stipendi ritenuti più opportuni. È il mercato, bellezza. Certo che in un momento in cui tra crisi, salvataggi e sofferenze le banche non godono esattamente di una splendida reputazione, colpisce vedere certe cifre. Così come colpisce vedere gli utili concentrarsi nei paradisi fiscali e gli stipendi crescere in doppia cifra mentre a stento si vede un segno più davanti al PIL del nostro Paese. Evidentemente i top manager avranno contribuito a creare ricchezza in un modo che non riusciamo bene a cogliere, da quaggiù; o che non riusciamo bene a vedere perché questa ricchezza finisce in altre giurisdizioni; o che rimane incastrata in circuiti finanziari e in pochissime mani ma non arriva alla stragrande maggioranza della popolazione.
Quale che sia la spiegazione, si conferma un modello che ragiona su orizzonti di brevissimo termine, in cui sembra essere premiata non la creazione di valore per l’insieme della società ma unicamente la capacità di massimizzare nell’immediato il valore delle azioni per soddisfare l’appetito dei mercati finanziari. È il trionfo della visione secondo cui un’impresa non deve rispondere all’insieme dei portatori di valore – soci, clienti, fornitori, dipendenti, comunità nel senso più ampio del termine – ma unicamente ai propri azionisti. Dalla stakeholders value alla shareholders value. Una finanziarizzazione dell’economia che ha investito in pieno anche il sistema bancario, in una paradossale finanziarizzazione della finanza.
Per questo tra crescita dei compensi dei top manager e utili nei paradisi fiscali c’è un legame culturale per non dire ideologico, un modo di intendere l’attività bancaria e finanziaria se non l’insieme dell’economia. Cambiare rotta significa introdurre regole e controlli, ma in maniera forse ancora più importante significa cambiare i nostri comportamenti e aprire una riflessione sull’uso del denaro. In Banca Etica il rapporto tra stipendio massimo e minimo non può superare 6 a 1 e non si opera nei paradisi fiscali, solo per citare i due ambiti segnalati in questo articolo. Ma più in generale è un modello radicalmente differente, in cui la finanza è uno strumento al servizio dell’insieme della società e non ha come obiettivo estrarre il massimo profitto nel minore tempo possibile e concentrarlo in meno mani possibili. Se non ci piace vedere profitti dileguarsi nei paradisi fiscali e manager gratificarsi con remunerazioni milionarie in un paese in crisi e dove le diseguaglianze hanno raggiunto livelli insostenibili, abbiamo uno strumento tanto semplice quanto potente: assumerci la responsabilità di decidere dove aprire un conto corrente e a chi affidare i nostri risparmi. Anche con i nostri soldi possiamo evitare di alimentare un sistema del quale siamo noi stessi le vittime, per sostenere al contrario la crescita di un differente modello finanziario, economico e sociale.
Pubblicato su Non con i miei soldi il 29 marzo 2017.