di Alfio Nicotra
I ministri degli esteri e della difesa europei hanno varato il primo comando militare unificato dell’Unione europea – il cosiddetto Military Planning and Conduct Capability (MPCC) che comanderà le missioni militari europee “non executive” (tre quella attualmente in corso, in Mali, Centrafrica e Somalia). Nell’incontro a Versailles, invece, Gentiloni ed il presidente francese uscente (e non ricandidato) Hollande hanno giocato al poliziotto buono e a quello cattivo. Il premier italiano ha insistito «per l’Europa sociale», l’inquilino dell’Eliseo invece sulla priorità da dare «alla difesa comune europea». Entusiasta la ministra Pinotti di questa centralità acquisita da armi ed armati da parte di una Unione europea in storica crisi di credibilità. Da Bruxelles annuncia che la Nunziatella diventerà la prima scuola militare del nascente esercito europeo.
Nel suo discorso sullo stato dell’Unione 2016 era stato il presidente Juncker ad aprire la strada a questo coro monocorde: «Assumere maggiori responsabilità in ambito della difesa e della sicurezza». Un coro cantato da diverse parti, primo fra tutti dal segretario generale della NATO. Ma non era mai accaduto che il leit motiv delle amministrazioni statunitense vecchia e nuova fosse fatto completamente proprio dai vertici comunitari. Tutte le 22 pagine della Comunicazione del “Piano di azione europea in materia di difesa” della Commissione europea è permeato da questo mantra. Si ripete in ogni pagina che l’UE deve investire nello sviluppo di capacità di difesa essenziali per essere in grado di frenare, reagire e proteggersi dalle minacce esterne. L’Unione europea deve dimostrare di poter provvedere alla sicurezza sia militare che cooperativa (hard and soft security). Sia la tabella di marcia di Bratislava, sia il Parlamento europeo che il Consiglio dell’Unione europea hanno, negli ultimi mesi del 2016, sottolineato questo tipo di priorità. Non si tratta infatti di un richiamo rituale: nell’establishment europeo si è rafforzata la tendenza a fare della difesa uno dei pilastri della nuova fase della UE. Questa tendenza è diventata inarrestabile dopo la vicenda della Brexit e l’affermazione negli USA del nuovo presidente Trump. Lo sganciamento del Regno Unito dalla UE ha fatto saltare la principale resistenza affinché l’Europa si doti di un proprio esercito e di una più unitaria politica industriale di difesa (UK è sempre stata “il guardiano atlantico” nella UE, sempre disponibile a frenare e mettersi di traverso a qualsiasi aspirazione europea tesa ad una vera autonomia sul piano militare dagli USA e dalla NATO).
Dall’altro lato Trump non ha mai fatto mistero di reputare inaccettabile lo scarso (secondo la sua visione) impegno europeo in ambito di una difesa comune. La richiesta esplicita è portare al 2% del PIL le spese militari di ogni singolo paese della UE. Mentre l’ad di Finmeccanica Moretti – condannato per la strage alla stazione di Viareggio – gongola davanti al balzo delle spese per armamenti annunciati dal nuovo presidente USA, l’Europa mestamente si adegua.
Intelligence, sorveglianza e ricognizione, sistemi aerei a pilotaggio remoto, comunicazioni satellitari, accesso autonomo allo spazio e osservazione terrestre permanente, capacità militari di punta, compresi i facilitatori strategici, nonché quelle necessarie a garantire la cybersicurezza e la sicurezza marittima. Su questi campi, si afferma, la UE deve accrescere il proprio potenziale sia militare che industriale.
Ovviamente il “Piano d’azione” è assai attento a non strappare con la NATO ma a ritenere la UE come totalmente interna a questo Patto militare (a dispetto del fatto che ben tre paesi membri abbiano lo status di Paesi neutrali e non ve ne facciano parte come Irlanda, Austria e Finlandia).
L’Europa (considerando anche la Gran Bretagna) occupa il secondo posto nel mondo per la spesa militare. Questo nonostante in Europa i bilanci della difesa si siano ridotti negli ultimi anni. L’importanza del settore industriale della difesa non riguarda unicamente la sicurezza dell’Europa: con un fatturato annuo complessivo di 100 miliardi di EUR e con 1,4 milioni di persone altamente qualificate direttamente o indirettamente impiegate in Europa, il settore dell’industria bellica fornisce anche un contributo significativo all’economia europea. L’industria della difesa dipende dall’avvio di programmi di sviluppo delle capacità da parte dei governi e, più in generale, dal livello di spesa pubblica e di investimenti. Possiamo anche dire, come è possibile leggere nella parte d’investimenti del MISE in Italia, che larga parte degli investimenti pubblici in Europa in campo industriale tende a riguardare quasi ed esclusivamente programmi di armamenti . Il neoliberismo insomma non vale per l’industria bellica, che continua ad attingere dalle casse pubbliche risorse sempre più importanti tanto più in presenza della politica di contenimento del deficit imposta dalla UE agli Stati membri. Da questo anno prende avvio il “Fondo europeo per la difesa” deciso dal “Piano d’azione”, tramite cui il complesso bellico industriale del nostro continente potrà attingere a nuove risorse di finanziamento comunitario. I progetti di “ricerca collaborativa” potranno attingere tra il 2017 al 2020 a 90 milioni di anno, per poi innalzarsi a 500 milioni annui a partite dal 2021. La sezione “Capacità comuni di difesa” del Fondo invece godrà da subito di 5 miliardi di EUR all’anno. Questa politica delle Commissione, oltre a razionalizzare l’industria bellica europea, ha anche l’obiettivo d’invertire la tendenza alla riduzione delle spese per la difesa.
Infatti la crisi economica ha fatto si che numerosi Stati membri abbiano tagliato i bilanci della difesa nel corso dell’ultimo decennio. Tra il 2005 e il 2015 la spesa per la difesa dei 27 Stati UE partecipanti all’Agenzia europea per la difesa (AED) si è ridotta di quasi l’11%, sino a raggiungere l’importo complessivo di 200 miliardi di EUR. Nel 2015 anche la quota del PIL destinata alla spesa per la difesa è scesa all’1,4%. In termini reali i bilanci della difesa nell’UE sono diminuiti di 2 miliardi di euro all’anno nel corso dell’ultimo decennio. Oggi solo 4 Stati membri su 28 raggiungono l’obiettivo di spesa della NATO fissato al 2% del PIL nel vertice del 2014 in Galles: Estonia, Grecia, Polonia e Regno Unito. Nonostante questa contrazione delle spese militare della UE nell’ultimo decennio, i 28 paesi membri spendono ancora tanto in difesa almeno quanto Russia e Cina messe insieme. D’altronde le forze armate della UE assommano sulla carta a circa 1.500.000 uomini, un numero analogo a quella degli Stati Uniti, costando circa 285 miliardi di dollari nel 2012, meno della metà degli Usa (668), ma quasi il doppio della Cina (158) e il triplo della Russia (90).
Una organica politica di disarmo rimane ancora una strada inesplorata ed osteggiata dai vertici della UE. Potrebbe infatti essere questo uno dei pilastri per rilanciare il suo prestigio nella comunità internazionale e tra la popolazione europea, specialmente quella più colpita dalla crisi. Invece la strada sembra segnata in senso opposto. Invece di lasciare fuori dal patto di stabilità le spese per la cultura, la salute o l’occupazione si avanza l’idea di lasciare fuori dal patto le spese militari. Un’Europa che, con queste intenzioni, appare del tutto subalterna alla stagione di riarmo annunciata da Trump.
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 7 aprile 2017.