Roma – “Parlare di ricatto è completamente fuori luogo”. Riccardo Alcaro, responsabile di ricerca dell’Istituto affari internazionali – lo stesso dal quale provengono l’alta rappresentante per la Pesc dell’Ue, Federica Mogherini, e la sua consulente speciale, Nathalie Tocci – non condivide le interpretazioni di chi ha letto, tra le righe della lettera par l’attivazione della Brexit, una minaccia della premier britannica Theresa May per ottenere un accordo commerciale in cambio della cooperazione sulla sicurezza. “Non mi sembra un ricatto”, ripete mentre lo intervistiamo passeggiando per il centro di Roma, “è una posizione negoziale iniziale, e dal punto di vista del governo britannico ha senso”.
Quale?
La Gran Bretagna è in una posizione nettamente più debole rispetto all’Unione europea nei negoziati per la Brexit. Intanto perché la procedura di divorzio favorisce chiaramente gli Stati che restano rispetto chi esce. Poi perché si tratta sempre di un Paese che, per quanto ricco, influente e capace sul piano diplomatico, deve negoziare una relazione con altri 27 i quali, nel loro insieme, sono più influenti e più ricchi. Le carte che May può giocare non sono moltissime. Per tentare di ridurre il peso dell’Ue, prova a negoziare contemporaneamente il divorzio e i termini della futura relazione. Però sa che è difficile che i 27 le vengano incontro su questo punto, soprattutto dopo che il caponegoziatore della Commissione europea, Michel Barnier, ha chiaramente detto che c’è una sequenza che vede prima la conclusione delle questioni relative al divorzio, e poi l’avvio del negoziato sulla futura relazione. Finché elementi come il futuro dei cittadini britannici residenti nell’Ue e degli europei nel Regno unito non saranno stati definiti, e soprattutto finché non sarà stata definita la questione di ciò che l’Ue ritiene che la Gran Bretagna debba ancora pagare in virtù degli impegni presi da membro dell’Ue, May può mettere sul piatto, ad esempio per pagare meno, un certo tipo di cooperazione in sicurezza e politica estera, un certo tipo di contributo alla politica di difesa europea e così via.
Neppure a Londra però converrebbe una mancata cooperazione nel campo della sicurezza. Fino a che punto May può giocare con queste leve?
Quella di May, infatti, è una posizione negoziale di partenza e ci sono anche motivi interni per adottarla. Non può cedere subito. In primo luogo perché non è mai buona pratica dimostrarsi cedevoli all’inizio di un processo negoziale. Poi, perché esporrebbe il fianco a quelli che, nel Partito conservatore, spingono più per una ‘hard Brexit’ o addirittura per un divorzio senza accordo.
Qual è il peso che il Regno unito ha nella definizione della politica estera e di sicurezza dell’Ue?
A partire dal 2010, da quando si è passati da un esecutivo laburista a quello di coalizione tra conservatori e liberaldemocratici, il peso è andato diminuendo per un relativo disinteresse che Downing Street ha dimostrato in questo ambito. Questo però non vuol dire che il Regno unito non sia rimasto influente. Ha rappresentato, ad esempio, una delle voci più decise nel sostenere l’imposizione di sanzioni Ue contro la Russia per avere fomentato di fatto una guerra civile in Ucraina. È una delle voci più a favore del Ttip, il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti tra Usa e Ue. Ha sempre dato una forte spinta alla politica estera commerciale dell’Ue e, ovviamente, è un sostenitore dell’Alleanza atlantica e della necessità di non creare quelle che Londra ritiene inutili duplicazioni tra Nato e politica di difesa europea. Ciò che è venuto meno, con i governi Cameron e May, è una capacità di iniziativa e un orizzonte europeo della politica estera britannica, che con fortissime ambiguità, a partire dalla decisione di invadere l’Iraq al fianco dell’amministrazione Bush, il governo Blair aveva invece portato avanti.
Senza Regno unito, nel Consiglio europeo sarà più facile o più difficile trovare posizioni comuni in politica estera e di sicurezza?
Su alcune questioni sarà senza dubbio più facile. Penso ad esempio a quelle relative alla difesa, allo sviluppo di capacità e all’attribuzione di alcune mansioni all’Ue in questo ambito. È un tema su cui tradizionalmente il Regno unito si è sempre messo di traverso. Su altre questioni dipende. Pensare che le divisioni in politica estera siano sempre state lungo un asse, che vedeva il Regno unito da una parte e il resto dell’Ue dall’altra, è contrario ai fatti. Basti pensare alla questione del nucleare iraniano, dove il Regno unito, insieme con Francia e Germania, si è fatto promotore di una politica europea che è stata molto di più di una semplice somma delle parti. La politica estera dell’Ue resterà motivo di divisione fintanto che vigerà la regola dell’unanimità per le decisioni.
L’asse franco-tedesco si rafforza o si aprono nuovi spazi per l’Italia?
In politica estera credo ci sia più spazio per l’Italia, ma dipende dalla capacità italiana di saperlo riempire. Il nostro Paese non vale il Regno unito sotto tantissimi aspetti della politica estera – le capacità diplomatiche, la rete di relazioni internazionali, la rete delle ex colonie, i rapporti internazionali, quelli con gli Stati uniti, le capacità militari e anche la credibilità – però restiamo pur sempre la terza economia dell’Unione e un Paese che ha sempre visto nell’Europa una dimensione di politica estera compatibile con la propria, cosa che invece il Regno unito non ha mai fatto. Però, adesso che la gran Bretagna uscirà, l’Italia ospita forse la più grande coalizione euroscettica in Europa. Vediamo cosa succederà.
Al netto dell’effetto Trump, come cambiano i rapporti tra Usa e Ue con la Brexit?
Gli Stati uniti non avranno più nel Regno unito un interlocutore privilegiato per generare consenso nell’Ue verso le loro politiche. Dovranno rivolgersi più di quanto abbiano fatto finora alla Germania e alla Francia. Alla Germania per la politica estera in generale, alla Francia per la politica di sicurezza più nello specifico. Il Regno unito, di contro, perderà parecchia influenza internazionale, perché non avrà più la funzione di lavorare a un consenso dell’Unione europea su politiche compatibili o a sostegno di quelle americane. Londra diventerà meno importante per gli americani, che dialogheranno con l’Ue attraverso un canale separato.
Questo cosa comporta?
Il rischio – e qui rientra in gioco anche l’effetto Trump – è che si crei una divisione fra un’anglo-sfera e un’euro-sfera. Ovvero che la Gran Bretagna, diventata ininfluente in Europa, finisca per schiacciarsi sulle posizioni di Washington per avere più peso internazionale. È lo scenario che abbiamo già sperimentato in una occasione, quella della guerra in Iraq, che è stata devastante per le relazioni transatlantiche e all’interno dell’Ue. L’esempio che facevo prima, quello della convergenza tra Regno unito, Francia e Germania sulla questione del nucleare iraniano, aveva una delle sue ragioni anche nel tentativo di sanare le ferite, intra-Ue e transatlantica, generate delle divisioni sull’Iraq.