di Thomas Fazi
La crisi finanziaria del 2007-9 può essere considerata una conseguenza di quel trentennale processo di finanziarizzazione – termine di cui esistono diverse definizioni ma che per semplicità possiamo identificare con il peso e il potere crescenti assunti dalla finanza e dal capitale finanziario nell’economia – che fu la risposta (indubbiamente geniale) del capitalismo alla stagnazione dei salari provocata dalla guerra vittoriosa ingaggiata dal capitale nei confronti del lavoro nel corso e per mezzo di quella che è stata definita la “controrivoluzione neoliberista”. In sostanza, la crescente erosione dei salari e del potere d’acquisto dei lavoratori in diversi paesi occidentali fu “compensata” dall’aumento esponenziale dell’indebitamente privato, ossia da quello che alcuni hanno definito una paradossale forma di “keynesismo privatizzato”. Sarebbe a dire che le banche hanno permesso ai lavoratori, tramite il credito/debito, di mantenere inalterati i loro livelli di consumo, nonostante la stagnazione salariale verificatasi dagli anni ’70 in poi.
Questo processo di finanziarizzazione si è espletato sostanzialmente in due modi: (i) a livello internazionale, attraverso la liberalizzazione dei flussi di capitale, che – è il caso di sottolineare – fu una scelta squisitamente politica e non una conseguenza inevitabile della modernità e del progresso, come spesso viene detto, anche a sinistra; (ii) a livello nazionale, attraverso la liberalizzazione dei sistemi bancari e creditizi nazionali, per mezzo dello smantellamento di tutta quell’architettura regolatoria messa in piedi in alcuni paesi in seguito alla grande depressione e poi in maniera più diffusa in seguito alla seconda guerra mondiale, e che fu una delle architravi del cosiddetto “trentennio glorioso” (che poi tanto glorioso non fu ma quello è un altro discorso).
Su entrambi questi fronti l’Europa – e, ahimè, la sinistra europea – ha fatto da apripista. Sul fronte della liberalizzazione dei capitali l’Europa ha praticamente anticipato tutti. Basti pensare che già nell’Atto unico dell’86 – quindi parliamo di un momento in cui praticamente tutti i paesi europei impiegavano controlli di capitale di qualche tipo ed anzi questi erano considerati fondamentali per il corretto funzionamento del mercato unico – Jacques Delors, l’allora presidente della Commissione, riuscì a inserire la libera circolazione dei capitali (non solo tra paesi membri ma anche tra paesi della CEE e paesi terzi) tra le architravi della nascente costituzione economica europea. Questo diede uno spinta decisiva alla liberalizzazione dei flussi di capitale a livello globale. Come scrive Rawi Abdelal, professore di management internazionale ad Harvard: «Questa nuova definizione del carattere economico europeo rappresentò il motore principale della diffusione della libera circolazione dei capitali a livello mondiale… I mercati finanziari globali sono globali in primo luogo grazie al processo di integrazione finanziaria europea». Tale processo ha inoltro giocato un ruolo cruciale nel determinare la crisi dell’eurozona, come vedremo.
Questo per quanto riguarda la liberalizzazione dei flussi di capitale. L’Europa però ha fatto da apripista anche sull’altro fronte di tale processo, la liberalizzazione e la deregolamentazione dei sistemi bancari nazionali. Si è parlato tanto in questi anni del ruolo giocato nella crisi finanziaria dall’abrogazione da parte di Clinton, nel 1999, della famosa legge Glass-Steagall, introdotta da Roosevelt negli anni ’30 per separare le banche commerciali dalle banche d’investimento e impedire la formazione di quelle banche “too big to fail” che hanno giocato un ruolo determinate nella crisi. Ora, quello fu sicuramente un passaggio importante per quanto riguarda il contesto statunitense. Quello che però spesso ci si dimentica di dire è che l’Europa anticipò praticamente di un decennio gli Stati Uniti nell’abrogare le varie leggi “Glass-Steagall” che esistevano nei diversi ordinamenti nazionali europei. Già nel 1989 la Seconda direttiva bancaria della CEE, finalizzata alla creazione di un mercato unico dei servizi finanziari, gettò di fatto le basi legali per l’estensione del cosiddetto “modello tedesco” della banca universale – sarebbe a dire un sistema in cui alle banche è permesso di partecipare ad attività diverse e di agire sia da banca commerciale che da banca d’investimento – al resto della Comunità europea.
La Seconda direttiva rappresentò una sorta di legge bancaria sovranazionale che funse da quadro di riferimento per le riforme dei vari sistemi bancari nazionali negli anni a venire. In Italia la direttiva fu recepita nella Legge Amato del 1990, che permise alle banche di superare il divieto, introdotto nel 1936, di operare contemporaneamente come imprese commerciali e di investimento. Rappresentò in un certo senso l’equivalente italiano dell’abolizione della Glass-Steagall fatta da Clinton, con dieci anni di anticipo rispetto agli Stati Uniti però. Come per la liberalizzazione dei flussi di capitale, anche questo ebbe inevitabilmente un impatto a livello internazionale, fornendo l’impulso alla liberalizzazione dei sistemi bancari anche all’infuori dell’Europa e in particolare negli USA. Uno dei risultati della Seconda direttiva bancaria, infatti, fu il progressivo consolidamento delle banche europee, che in pochi anni divennero significativamente più grandi e concentrate delle loro corrispettive statunitensi, tanto che cominciarono ad acquisire diverse banche statunitense. Fu proprio la minaccia (reale) rappresentata dalle banche europee a cui si appellarono le banche statunitensi per ottenere dai legislatori l’abolizione della Glass-Steagall.
Arriviamo così alla crisi finanziaria del 2007-9. Va notato che persistono ancora delle letture molto discutibili di cosa fu realmente quella crisi. È ancora diffusa, per esempio, l’opinione secondo cui le banche e le istituzioni europee furono semplici “vittime collaterali” di una crisi generatasi oltreoceano. Non è così. Come scrisse Luciano Gallino: «Non si è affatto trattato di una crisi americana seguita da una crisi europea; in realtà la prima e la seconda sono due volti, o due fasi, di una medesima crisi del capitale finanziario». Come è noto, negli Stati Uniti la crisi fu il risultato dello scoppio della bolla dei cosiddetti subprime: mutui facili concessi dalle banche americane a soggetti a basso reddito che non erano in grado di ripagare tali debiti, cosa che però importava poco alla banche giacché questi debiti venivano impacchettati (“cartolarizzati”) e poi rivenduti a terzi.
Le stesse dinamiche ebbero luogo in Europa, solo su scala molto più grande. Prima di entrare nel merito della faccenda, è opportuno notare che – proprio in virtù del ruolo di avanguardia giocato dall’Europa nei processi di finanziarizzazione – alla vigilia della crisi (ma lo stesso è vero anche oggi) il sistema bancario europeo si presentava molto più grande di quello americano. Tanto per farsi un’idea: a fine 2007, tra i primi venti gruppi bancari del mondo per volume degli attivi, ben quattordici erano europei e solo tre erano americani. In totale, alla vigilia della crisi finanziaria, gli istituti finanziari europei (esclusi quelli svizzeri) – settemila in tutto – detenevano attivi per 37,7 trilioni di euro, pari quasi al 300 per cento del PIL dell’Unione. Di questi, 20 trilioni – pari al 150 per cento del PIL dell’UE – erano in mano a dieci mega-banche (con attivi equivalenti a una grossa fetta del PIL dei rispettivi paesi). Per contro, gli attivi totali del sistema bancario americano ammontavano “solo” al 78 per cento del PIL.
Se prendiamo la cosiddetta “leva finanziaria” – cioè il rapporto tra capitali propri e capitali presi a prestito – come misura della propensione al rischio e alla speculazione finanziaria di una certa banca, risulta evidente che le banche europee, lungi dall’essere delle vittime collaterali dei malaffari delle banche americane, erano dedite esattamente alle stesse pratiche ad altissimo rischio sistemico (e al limite della legalità) delle loro controparti d’oltreoceano. E spesso su scala ancora maggiore. Se Lehman Brothers e Bank of America – due delle banche al centro della crisi dei subprime – registravano alla vigilia della crisi rispettivamente una leva di 31:1 e 11:1, in Europea ING registrava una leva di 49:1, Deutsche Bank di 53:1 e Barclays – che risultava essere la banca più indebitata al mondo – addirittura di 61:1. Questo giusto per farsi un’idea di quanto sia fallace l’idea che esista una “cattiva” finanza americana e una “buona” finanza europea.
Dicevamo che in Europa abbiamo visto delle dinamiche simili alla crisi dei subprime USA. Ecco, sostanzialmente potremmo dire che se negli USA le banche si concentrarono su cittadini subprime, in Europa le banche si concentrarono su paesi subprime. Con l’introduzione dell’euro abbiamo assistito ad un’esplosione dei flussi finanziari transfrontalieri. In pratica, enormi flussi di capitale si sono riversati dai paesi del centro (come Francia e Germania) verso quelli della periferia, alla ricerca di margini di profitto più alti di quelli che potevano ottenere in patria. Nella maggior parte dei casi, questi flussi si sono riversati verso altre banche – contribuendo all’aumento dell’indebitamento privato dei paesi della periferia – ma in alcuni casi si sono riversati anche in titoli di Stato, come in Grecia, favorendo invece l’aumento dell’indebitamento pubblico. Questo ha contribuito ad alimentare enormi bolle speculative in paesi come Irlanda, Spagna e Grecia, che a loro volta sono all’origine degli altrettanto enormi squilibri di partite correnti generatisi in seguito all’introduzione dell’euro. In tutti i casi, comunque, l’aumento dei livelli di indebitamento – sia privato che pubblico – nel periodo antecedente alla crisi può essere ricondotto alla creazione e all’architettura ultra-finanziarizzata dell’unione monetaria, come ha riconosciuto lo stesso vicepresidente della BCE Vítor Constâncio.
Uno potrebbe dire: ma le banche non si rendevano conto di correre dei rischi a prestare grandi quantità di denaro alle banche e ai governi di paesi politicamente poco affidabili e strutturalmente piuttosto deboli? La risposta, di cui troviamo conferma nelle dichiarazioni di diversi banchieri europei, è che no, non pensavano di correre dei rischi perché erano sicuri che in caso di crisi le istituzioni pubbliche sarebbero intervenute per salvarle. E così è stato: secondo un rapporto della Commissione Europea, tra ottobre 2008 e ottobre 2010 la Commissione stessa ha approvato 4.600 miliardi di euro di aiuti di Stato in favore delle istituzioni finanziarie da parte di paesi UE, equivalenti al 37 per cento del PIL dell’Unione. Quattro paesi hanno presentato programmi di aiuti alle banche che vanno dai 600 miliardi della Germania agli 850 del Regno Unito (che nel 2008 ha anche parzialmente nazionalizzato due banche, la Royal Bank of Scotland e la Lloyd Banking Group). I programmi di altri quattro paesi variavano tra i 320 miliardi dell’Olanda e i 350 della Francia. L’ammontare del sostegno pubblico effettivamente utilizzato dalle istituzioni finanziarie è stato di 960 miliardi di euro nel 2008 e 1100 miliardi nel 2009: oltre 2000 miliardi di euro in soli due anni.
Ovviamente questi salvataggi non hanno solo riguardato le banche dei paesi coinvolti: indirettamente hanno riguardato anche le banche creditrici, ossia le banche dei paesi del centro – Germania e Francia – che si erano indebitate nei confronti delle banche (e nel caso della Grecia del governo) della periferia. Salvando le banche della periferia i governi di quei paesi hanno indirettamente salvato le banche dei paesi del centro. Questi salvataggi sono ovviamente all’origine dell’esplosione dei livelli di deficit e di debito pubblico a cui abbiamo assistito dal 2009 in poi, che è stato poi utilizzato – in un’operazione di propaganda francamente vergognosa – per trasformare una crisi finanziaria e del debito privato in una crisi del debito pubblico e delle finanze pubbliche, giustificando così l’imposizione di quelle violentissime misure di austerità che sono all’origine della profondissima crisi sociale ed economica in cui versa l’Europa (e in particolare i paesi della periferia).
Ma non è finita qui. Come è noto, l’effetto dei salvataggi bancari – e più in generale della crisi economica – sulle finanze pubbliche di questi paesi è stato così devastante che di lì a poco, dopo la Grecia, anche Irlanda, Portogallo e Spagna si sono visti costretti a chiedere “aiuto” alla troika. Anche in questo caso, però, emerge che il grosso dei soldi è stato utilizzato per permettere alle banche della periferia (e nel caso della Grecia, allo Stato) di onorare gli impegni con le banche creditrici, in gran parte banche tedesche e francesi, non per risanare i buchi di bilancio. Di fatto, si è trattato di un doppio salvataggio a favore delle banche creditrici (triplo se includiamo anche il modo in cui il sistema TARGET2 della BCE ha permesso alle banche del centro di rientrare di una parte dei loro debiti nei confronti delle banche della periferia). Agli interventi statali a sostegno delle banche bisogna poi aggiungere il sostegno della BCE, che di fatto si è attivata per offrire una fonte illimitata di liquidità alle banche della zona euro.
Per concludere, potremmo dire che, di fronte di una crisi dettata da un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, le autorità pubbliche hanno sostanzialmente scelto di accelerare ancora di più nel siffatto processo di finanziarizzazione. L’Europa è un esempio lampante: da un lato abbiamo avuto misure di austerità feroce per i governi e per “l’economia reale” – che hanno accelerato processi di deindustrializzazione già in corso – mentre dall’altro abbiamo visto le autorità nazionali e sovranazionali fare di tutto di tutti per rilanciare i processi di accumulazione finanziaria, senza perseguire praticamente alcuna riforma fondamentale del sistema bancario. Non è dunque esagerato affermare che la crisi in Europa è stata utilizzata soprattutto per approfondire e “portare a termine”, per così dire, il processo di neoliberalizzazione e di finanziarizzazione dell’economia, di cui oggi paghiamo le conseguenze in termini economici e politici.
Rielaborazione di una relazione tenuta in occasione dell’incontro su “Il sistema bancario europeo e la crisi” organizzato da Rethinking Economics Bologna all’Università di Bologna il 9 marzo 2017.