Roma – La telenovela della scissione del Pd si è praticamente conclusa. Non c’è stato il tanto atteso gran finale con i botti, ma sfumando verso l’uscita, l’ala sinistra del partito rappresentata dai leader storici Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, e dai nuovi “leader naturali” Enrico Rossi e Roberto Speranza, si è persa il governatore della Puglia, Michele Emiliano, che alla fine ha scelto di rimanere e di sfidare il segretario uscente, Matteo Renzi, nella battaglia congressuale. E ora cosa accade?
Di qui ai prossimi 4 mesi si celebrerà l’Assise dei democratici, dove sarà ben difficile per Emiliano – o anche per il ministro della giustizia Andrea Orlando, qualora scegliesse di correre anch’egli per la segretaria – riuscire a spuntarla, soprattutto ora che il partito è stato ‘depurato’ dalla fronda più ostile all’ex presidente del Consiglio.
Renzi sembra destinato dunque a mantenere la leadership in una campagna congressuale che correrà parallela a quella elettorale per le prossime amministrative, le quali vedranno recarsi alle urne i cittadini di circa mille Comuni, in una data ancora da fissare tra il 9 aprile e il 14 maggio. Il tutto con un’altra scadenza incombente nello stesso periodo: la fine di aprile, quando l’esecutivo dovrà varare la manovra correttiva da 3,4 miliardi richiesta dalla Commissione Ue, che a inizio maggio deciderà se aprire o meno una procedura di infrazione per squilibri economici eccessivi.
Il segretario uscente del Pd, principale partito di maggioranza, ha già detto chiaramente che non vuole sentir parlare di un aumento della pressione fiscale per accontentare Bruxelles, mentre il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, nella sua lettera ai commissari Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici aveva promesso che la correzione si baserà per tre quarti su nuove entrate, tra le quali quelle derivanti da misure sulle imposte indirette.
Ci sono tutte le premesse, dunque, perché proprio quello della manovra correttiva sia il terreno sul quale Renzi potrebbe staccare la spina al governo Gentiloni per andare a elezioni anticipate. L’alternativa sarebbe imporre all’esecutivo una manovra che punti solo su privatizzazioni e tagli di spesa, ma questo provocherebbe comunque un malcontento difficilmente gestibile nell’imminenza delle amministrative.
Sfidando l’Ue e facendo cadere il governo per evitare misure di austerità, Renzi affronterebbe invece la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle sul loro stesso campo. Poi, se riuscisse a far fissare la data delle politiche prima del 16 settembre, eviterebbe che scattino i vitalizi per i parlamentari al primo mandato, togliendo un ulteriore argomento ai cosiddetti ‘populisti’.
Se questo basterà all’ex premier per tornare a Palazzo Chigi è difficile dirlo. Anche perché non è ancora certo con quale legge elettorale si andrà a votare. Che si torni a un sistema proporzionale, visti gli attuali equilibri in Parlamento, appare quasi ineluttabile. In questo caso saranno necessarie delle coalizioni per formare il prossimo esecutivo.
È arduo pensare che il microcosmo di sigle a sinistra del Pd – dalla neonata Sinistra Italiana al nuovo soggetto di D’Alema, Bersani, Rossi e Speranza, passando per Possibile dell’altro ex Pd Pippo Civati e per i vari partiti comunisti oggi fuori dal Parlamento – riesca a conquistare i consensi sufficienti a fare una maggioranza col Partito democratico, con un asse spostato a sinistra.
Altrettanto difficile è che quelle forze a sinistra del Pd accettino una coalizione più ampia con le forze di centro, con uno spostamento troppo a destra che riproporrebbe i problemi per i quali la sinistra dem ha scelto la scissione.
Resta in piedi l’ipotesi di una grande coalizione che vada dal Pd a Forza Italia. Un’alleanza simile, ovviamente, non potrebbe formarsi prima del voto, ma sarebbe il frutto di una “responsabilità nazionale” che nasce dopo un risultato non netto delle urne, come avvenne per la maggioranza che sostenne il governo Letta dopo la “non vittoria” del Pd di Bersani.
C’è però la possibilità, concreta, che anche una coalizione dal Pd a Forza Italia non riesca ad avere una maggioranza in Parlamento. Escludendo che il Movimento 5 Stelle, con le grane che continuano ad arrivare sul fronte romano, riesca a ottenere la maggioranza da solo, ecco che si affaccia un’ipotesi che in molti temono e che viene sussurrata solo a bassa voce nei corridoi dei Palazzi: il prossimo governo potrebbe essere guidato da un asse Lega-M5s.
Il movimento di Beppe Grillo ha sempre dichiarato di non voler fare alleanze, di voler andare al governo da solo o niente. Tuttavia, nel corso del tempo ha dato prova di una certa elasticità dei propri paletti, che si possono adattare alle esigenze del momento. Se a questo si aggiunge che su molti temi, dal rapporto con l’Europa alla gestione dei migranti, le posizioni di Grillo e Salvini non sono poi così distanti, il matrimonio non sembra del tutto impossibile. Crollerebbe così l’ultimo argine che finora ha messo il nostro Paese abbastanza al riparo dall’ascesa al potere dei populisti, e cioè il fatto che il malcontento popolare verso l’establishment fosse attratto da due leader, Grillo e Salvini, anziché uno come negli Usa con Donald Trump o in Francia con Marine Le Pen.