Bruxelles – La creazione di un nucleo europeo formato unicamente dai “desiderosi e abili”, che darebbe forma a un’Europa a due velocità con diverse classi di appartenenza non è desiderabile. È quanto afferma Janis Emmanouilidis, direttore degli studi dello European policy centre (Epc), che ha di recente scritto un articolo accademico sul tema. La pubblicazione fa parte di un’iniziativa dell’Istituto affari internazionali e del Ministero degli esteri italiano, in cooperazione col Centro studi sul federalismo, per promuovere il dibattito europeo in vista del 60esimo anniversario dei Trattati di Roma.
Come è chiaro a molti, l’Europa a più velocità (o “integrazione differenziata”) è e rimane una caratteristica chiave della costruzione europea. Emmanouilidis è favorevole alla proposta recentemente avanzata anche dalla cancelliera Merkel: “La storia ha dimostrato che una cooperazione più intensa tra un gruppo più ridotto di Paesi membri può aiutare a superare una situazione di stallo e migliorare il funzionamento dell’Ue”. Il nodo sta però nel capire in quale modo andrebbe applicata tale strategia.
In questo senso, per l’esperto dell’Epc, un’Europa ridotta a un piccolo gruppo di Stati determinati a rafforzare l’Ue sarebbe un fallimento: “Non dovrebbe essere questo il modello per un’Europa a più velocità”. Il rischio, mette in guardia il ricercatore, sarebbe altrimenti di “creare una profonda frattura tra coloro che fanno parte del club e i Paesi esclusi”. C’è di più: nel caso di un’Ue limitata a pochi Stati, le istituzioni europee potrebbero rimanere anch’esse escluse dai veri centri di decisione, diventando così di fatto superflue.
Al contrario, secondo Emmanouilidis “l’Ue e i suoi Stati membri dovrebbero perseguire una differenziazione a livello istituzionale applicando gli strumenti già previsti dai trattati”. Questa strada permetterebbe di assicurare l’importanza delle istituzioni europee e allo stesso tempo di non escludere nessun membro dal progetto comunitario. Tuttavia, questo modello è poco probabile: “l’attuale clima politico fa intuire che difficilmente i governi degli Stati Ue metteranno in atto delle riforme per rinunciare a ulteriore sovranità in nome per esempio di un’unione fiscale”, afferma l’accademico dell’Epc.
L’unica via da percorrere è allora quella di “costruire un’integrazione differenziata attraverso patti tra Stati membri al di fuori dei trattati europei”. Un’opzione che, secondo Emmanouilidis, ha già mostrato il suo successo a partire dal 2010, con le riforme dell’Eurozona. Ma attenzione: la cooperazione tra governi europei dovrà seguire la logica dell’”avanscoperta”, rimanere “aperta a tutti i Paesi interessati”, e mantenere “un ruolo attivo delle istituzioni dell’Ue”. Altrimenti, ammonisce il direttore dell’Epc, il rischio è quello di mettere da parte l’Ue e tornare a un sistema di accordi internazionali: un grave passo indietro nell’integrazione europea.