Sforiamo il tetto del 3%, tanto non ci cacciano. Se non lo avesse detto Berlusconi sarebbe sembrata una noiosissima banalità. “E’ inaccettabile che non si trovino gli 8 miliardi per evitare l’aumento dell’IVA e abolire l’IMU”. Stiamo parlando di una piccola manovrina di circa lo 0.5% del reddito nazionale, quasi una bazzecola in termini di politica espansiva. Anzi, qui non si tratta neanche di dare un po’ di respiro all’economia, si tratta invece di evitare un’altra manovra depressiva, in un anno in cui è previsto un’ulteriore calo del Pil di circa 2 punti. Per rilanciare nel breve termine la domanda di consumi e investimenti ci servirebbero circa 100 miliardi, il 6-7 % del Pil.
Ormai è inutile continuare a lagnarsi che abbiamo le mani legate dalla Unione Europea. Il Fiscal Compact lo abbiamo approvato. Anzi, siamo stati il primo Paese dell’Europa ad averlo approvato nel mese di aprile del 2012, per compiacere i tedeschi, cosa a cui evidentemente Mario Monti teneva molto. A questo punto dobbiamo pensare al futuro. Creare il prima possibile, entro ilo 2014, un Tesoro dell’Eurozona che sia in grado di fare politiche macroeconomiche di stabilizzazione e di crescita con tutti i mezzi a sua disposizione: 1) capacità impositiva 2) emissione di eurobond 3) possibilità di politiche di quantitative easing simili a quelle degli Stati Uniti che per ora sembrano aver funzionato. Bisogna smetterla di andare dietro a quei Don Chisciotte tedeschi che continuano a combattere lancia in resta un nemico, l’inflazione, che non esiste più da qualche anno, ignorando il dramma della disoccupazione di massa in Paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna e il Portogallo.
Bisogna metterci in testa che la disoccupazione può essere combattuta con politiche espansive senza aumentare i debiti pubblici. Dobbiamo ricordarci che non è certo questa la prima volta in cui i debiti pubblici degli Stati, in rapporto al Pil, salgono a livelli alti. Nel secolo scorso, i debiti pubblici sono saliti sostanzialmente in 3 occasioni. La prima volta dopo la prima grande guerra mondiale. Poi, subito dopo la grande crisi del 1929, quando il debito dei grandi paesi sviluppati raggiunse il 70% del Pil. E poi ancora subito dopo la seconda guerra mondiale quando raggiunse il 90%. In ognuno di questi 3 casi il debito scese rapidamente, o come risultato dell’inflazione (soprattutto in Germania negli anni Venti), o per default degli Stati, (quasi tutti quelli dell’America Latina negli anni Trenta più alcuni Paesi europei) oppure negli anni d’oro (anni Cinquanta e Sessanta) con una combinazione di rapida crescita del Pil nominale (che includeva anche una considerevole crescita reale), tassi d’interesse artificialmente molto bassi e una bella dose di inflazione.
In tutti e tre i casi c’era una semplice spiegazione sul perché i debiti degli Stati erano saliti troppo. In due casi era successo a causa della guerra. In uno a causa della Grande Depressione. Poi, negli Stati Uniti e in altri paesi la crescita del debito pubblico dovuta alla Depressione degli anni Trenta si era mischiata ai grandi debiti per la spesa militare della Seconda guerra mondiale. Non sapremo mai cosa sarebbe successo a questi debiti se Hitler non si fosse suicidato nel suo bunker a Berlino.
C’è però una grande differenza tra il debito pubblico nei tre casi precedenti e quello di oggi. Oggi una parte non marginale del debito è comprata da stranieri. Non era così negli Quaranta, Cinquanta e Sessanta. Alcuni Stati non avevano nessuna remora a ridurre la libertà dei loro cittadini per finanziare il debito pubblico. Pensiamo al razionamento a cui furono sottoposti gli inglesi durante la seconda guerra mondiale affinché cedessero una larga parte di quello che avevano guadagnato allo Stato e non lo spendessero in beni di consumo frivoli. Hurricanes, Spitfire e Lancasters avevano precedenza sulle calze di seta. Il razionamento è continuato dopo la guerra fino al 1954.
Per poter uscire da quella che gli economisti chiamano trappola della liquidità, forse oggi si potrebbe provare a pensare ad una formula simile a quella degli anni cinquanta e sessanta. Ma non c’è più crescita, potrebbe obiettare qualcuno. E allora? Per ridurre il rapporto del debito rispetto al Pil quello che conta è la crescita del reddito nominale, quello che sta al denominatore. Una crescita del reddito del 5% sarebbe molto più accettabile ai cittadini anche se fosse accompagnata da una pari inflazione. Basterebbe non parlare di crescita reale ma di crescita nominale e darsi obiettivi sulla crescita di questo indicatore. D’altronde l’inflazione al 10 o anche al 20% come quella che c’era in Italia negli anni Settanta e Ottanta ce la ricordiamo tutti e non è stata una tragedia. Qualcuno potrebbe obiettare che così si monetizza una parte del debito. E allora? Neanche la monetizzazione può più essere considerata un tabù, visto l’uso che ne stanno facendo altri Paesi come gli Stati Uniti e il Giappone.
Per di più oggi i creditori non hanno più il potere di mettere i debitori in galera, come racconta bene Dickens (il cui padre fece quella fine) in un suo romanzo, Little Dorritt. “Trenta anni fa c’era, a pochi passi dalla chiesa di San Giorgio, nella zona di Southwark, sulla sinistra andando verso Sud, la prigione per debitori di Marshalsea. Era stata costruita lì molti anni fa e c’era rimasta a lungo. Ora non c’è più e il mondo non è certo per questo peggiorato”.
Elido Fazi