di Pierluigi Fagan
L’ordine del mondo sta subendo una modifica strutturale, si sta passando da un impianto prettamente economico e finanziario ad uno in cui l’economia e la finanza saranno pilotate dalla logica geopolitica. Il cambio che verrà imposto dal giocatore principale ovvero gli Stati Uniti, è motivato da una diversa lettura del come perseguire l’interesse nazionale.
L’interesse nazionale è un concetto che è diventato invisibile negli ultimi decenni ma è più probabile lo sia stato per ragioni narrative che per effettiva sua scomparsa. La narrazione globalista, narrazione inaugurata ai tempi del “Washington consensus”, il cui varo risale a venticinque anni fa, ha teso a raccontarci l’esistenza di un “interesse mondo” che scioglieva gli egoismi nazionali in un meta-ente indifferenziato a cui tutti avremo partecipato all’insegna del “poche regole e vinca il migliore”, invito rivolto ad entità private, tanto istituzionali (imprese, banche, fondi, intermediari, reti distributive) che individuali (imprenditori, lavoratori, investitori). Un lento scioglimento dello Stato ne era sia precondizione che l’effetto.
La narrazione ha esteso il suo dominio e credibilità, aiutata da vari portatori d’interesse. I primi sono stati ovviamente i credenti nel sistema cosiddetto “capitalista” nella versione storicamente maggioritaria, ossia “liberale”. Questo sistema, di sua natura, è formato da due logiche: una è quella della sede d’origine del soggetto capitalista che partecipa della cura che ogni Stato dà alla sua economia (protezione giuridica, investimenti pubblici, formazione del capitale umano, dotazione della prima clientela), sede che è sempre geolocalizzata, l’altra è quella che lo stesso soggetto privato ha laddove persegue il suo interesse o cercando di vendere qualcosa a quanti più è possibile o cercando di investire: ricevere l’investimento di capitale o cercando la mano d’opera a minor costo, delocalizzando o attirandola con le migrazioni economiche. Questa seconda logica non ha limiti geografici, anzi combatte strenuamente per forzarli. Si determina così una di quelle forme di interesse conflittuale (parte in comune, parte in conflitto) che accanto a quello ben noto del capitale-lavoro, prevede la coppia Stato e mercato[1].
I secondi portatori d’interesse che hanno sorretto la narrazione sono stati alcuni potenti Stati. Stati Uniti, Gran Bretagna da una parte e Germania, Francia, Giappone[2] dall’altra, hanno pensato che i propri campioni nazionali potessero così meglio performare e con ciò promuovere lo stesso interesse nazionale, che fosse poi di ritorno fiscale o occupazionale, con un secondo beneficio indotto: quello di ordinare il mondo imponendo un gioco (il “libero” mercato di merci, persone e capitali) in cui si ritenevano campioni assoluti. Ma la narrazione non avrebbe conquistato davvero cuori e menti globali se non fosse stata condivisa da altri che vi hanno visto la possibilità di promuovere anche il loro specifico interesse nazionale: la Cina, la Corea del Sud, il Brasile, l’India e molti altri. Dopo venticinque anni, si è scoperto che il rendiconto finale di queste intenzioni è diverso dalla aspettative. Il secondo gruppo, gli Stati affluenti, ha effettivamente conseguito i suoi obiettivi ma nel primo solo una sparuta minoranza di privati ne ha beneficiato e, soprattutto, si è registrata una costante perdita di potenza di alcuni Stati occidentali (i primi due) che si sono accorti di perdere progressivamente la facoltà di ordinare il mondo mentre nel secondo gruppo, tolta la Germania, ne hanno tutti più o meno sensibilmente, risentito[3].
In Occidente, curioso il caso di quella parte di pensatori e portatori di interesse politico che avrebbero dovuto avversare il dominio di questa narrazione ovviamente propria – in primis – dell’interesse dei pochi o élite o classe dominante, tre definizioni che dicono in termini analitici sostanzialmente la stessa cosa. Qui, almeno inizialmente, si formò il classico polo dell’antitesi, l’anti-globalismo poi alter-globalismo, ma non andò molto oltre la petizione di principio e quindi perse progressivamente sostanza[4]. Quasi subito, in questo frastagliato mondo dei Molti (popolo, classi subalterne), si distinse una corposa maggioranza di acquiescenti ovvero coloro che in fondo condividevano l’interesse a che il sistema generale (economico-finanziario-occupazionale) crescesse, riservandosi semmai il compito di promuovere diversi modi di ridistribuirne i benefici. Poi, ad esempio le sinistre europee, hanno perso anche questa intenzione, rapite dalla difficile responsabilità di dover fan funzionare il sistema verso il quale, una volta, erano in opposizione e paralizzate dalla logica duale dell’interesse dello Stato vs. quello di mercato.
Infine, una sparuta ma influente élite di pensanti, influente perché agisce sull’immagine di mondo, ha addirittura teorizzato che ciò era anche interesse dei Molti. Affascinati dalla flautata dolcezza di alcuni concetti cari alla tradizione di queste forme di pensiero quali “cosmopolitismo”, “internazionalizzazione”, “general intellect”, “comune”, “post-nazionale”, unitamente alla pervicace cecità sul concetto di Stato ed alla confusione tra i concetti di Stato e nazione, si è finiti per produrre una sillogismo demenziale: siccome il capitale è globale, io son contro il capitale, ergo, dobbiamo farci classe globale che combatte il capitale[5]. Che poi sarebbe come se il Crotone, incontrando il Barcellona, teorizzasse di doversi votare al tiki-taka per sconfiggerlo. Tutte e tre queste forme di aspiranti antitesi (forse eccetto la prima che in effetti teorizzava il pensiero globale ma l’azione locale) sembrano non aver capito che l’agente principale di questo gioco è sempre e solamente lo Stato che promuove il suo interesse nazionale[6].
Lo Stato definito come intenzionalità politica, giuridica e militare (spesso anche fiscale), che ha sovranità su un certo territorio su cui insiste una data popolazione, è un ente che appare in sincronia con la comparsa della società complesse, 5000 anni fa o addirittura prima. Ha declinato la sua forma spaziale in regno, impero, città-stato, signoria o principato, Stato-nazione o Stato non nazionale; ha declinato la sua forma funzionale in feudale, centralizzato, federale; ha declinato il suo ordinatore in politico, militare, teocratico, capitalistico; ha declinato la sua forma politica in monarchia o tirannia, oligarchia o aristocrazia, raramente in democrazia o demagogia[7] o forme intermedie tra cui l’oligarchia votata “democraticamente” che chiamiamo democrazia rappresentativa; ha declinato la sua composizione in nazionale (concetto originario della sola Europa e della sua peculiare geostoria) o plurietnico, ha avuto confini certi o sfumati, si è addensato intorno ad un credo religioso o più d’uno ma l’ente soggetto della storia politica ed oggetto del discorso è sempre è solo uno: lo Stato.
Le teorizzazioni anti-statali, che siano quelle dell’anarchia o del mercato autoregolato che risolve tutti i problemi (l’anarco-capitalismo di Murray Rothbard), svolgono una funzione critica ma non si è mai visto governare effettivamente porzioni di territorio con popolazioni concrete da altro che non sia una qualche forma di Stato. Anche l’ispirazione anarchica, quando ha provato concretamente a gestire popolazioni (dagli anarchici ucraini di N. Makhno alla Settimana rossa di Malatesta, alla guerra civile spagnola), è diventata una forma di socialismo consigliare o democrazia molto diretta e permanente che se non fosse stata presto stroncata dal flusso storico, non avrebbe potuto prendere altra forma che quella di Stato, non centralizzato, non militarizzato, non capitalista, probabilmente iper-federale-comunitario ma comunque Stato. Forme reticolari quali le anfizionie, le leghe, le confederazioni, esistono in quanto mettono in interrelazione Stati o unità politiche di popoli territoriali. Financo i seminomadi che erano certo meno territoriali degli stanziali, ebbero forma di unità politica-economica-militare-fiscale come nel caso degli Unni e dei Mongoli. Solo la condizione tribale, per altro dipendente da un rapporto molto basso tra popolazione e spazio territoriale, esce dallo schema e nel caso delle confederazioni dei nativi americani, poi, neanche del tutto.
Infine, la reiterazione del concetto di capitalismo che sembra non aver necessità di qualificazione geografica[8], ha portato – erroneamente – a ritenere di aver a che fare davvero con un miracoloso ente autorganizzato, acefalo e liquido come ci viene raccontato dai tempi di Smith (1776), stante che lo stesso Smith parlava sì di ricchezza ma delle “nazioni”, nel senso di degli “Stati”. Marx, nel XXIV capitolo del Libro I del Capitale, dice che il capitale si è servito principalmente del potere dello Stato ma sembra relegare questa funzione solo al fine della accumulazione originaria, mentre invece non c’è aspetto dell’affermazione e dello sviluppo del modello capitalistico madre, ovvero quello britannico, che non dipenda direttamente o indirettamente da qualche Act del parlamento a cui era demandata la funzione generale dello Stato sin dal 1688-89, fino alla sua fase imperiale. Così per la successiva fase americana. Del resto, non è che il “Washington consensus” si sia formato in un club privato di capitalisti internazionalisti e si sia imposto per spontanea accettazione nella magica convergenza di interessi delle classi dominanti. Si chiama “Washington” perché quella è la capitale politica degli Stati Uniti d’America, così per la wave liberista Reagan-Thatcher e per quella neoliberale Clinton-Blair, così per quella che ci aspetta nazional-liberista di Trump-May, stiamo sempre e solo parlando di Stati Uniti e Gran Bretagna, che fino a prova contraria sono Stati, Stati dominanti La culla del pensiero neoliberista (Chicago, Illinois, USA) è giunta infine a dare presunto spessore teorico alle disposizioni operative di quello che si chiamava “Washington consensus”, recuperando teorizzazioni austro-tedesche già degli anni ’30 che erano finite nel dimenticatoio, e comunque l’ha fatto partendo da una università americana.
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Reso così invisibile, l’interesse nazionale delle “nazioni dominanti”, categoria politica che sarà meglio affiancare a quella sociologica delle classi dominanti ed a quell’altra che ha unità metodologica nell’individuo, è diventato una struttura in bundle con una narrazione che voleva far di tutto il mondo un mercato, stante che Wall Street, la City e la stragrande parte delle Top 500 di Fortune sono appunto banche, aziende o centri di mercato delle nazioni dominanti e quindi dominando il gioco si pensava di poter dominare o quantomeno ordinare in proprio favore lo spazio-mondo, che nel frattempo diventava sempre più complesso e non solo per via della globalizzazione che – appunto – è stata un tentativo di dominare quella crescente e minacciosa complessità.
A conti fatti, però, sono apparse molte minusvalenze in questo gioco. Il capitale nazionale ha tradito spesso e volentieri l’interesse nazionale sia delocalizzando la produzione che la sede fiscale, con riflessi occupazionali negativi e crescita dell’interdipendenza in molti settori. Trump si sta accorgendo che se gli USA dovessero far guerra alla Cina, ad un certo punto la macchina bellica si bloccherebbe in attesa dei pezzi di ricambio prodotti – appunto – in Cina. Inoltre, la distrazione fiscale porta lo Stato a debito ed uno Stato a debito è come un gladiatore in catene. Infine, a conti fatti, ci ha guadagnato solo il capitale finanziario, che notoriamente è in mano a pochissimi, i quali, pur nelle men che formali democrazie occidentali e pur controllando tutte le fonti che formano ed informano l’immagine di mondo (accademia, informazione, editoria), contano pochi voti.
Poiché della narrazione faceva parte l’assurda novella del trickle-down, scoperta che questa è una post-verità e che in realtà i salari ristagnano, l’occupazione cala ed il futuro è viepiù incerto, capita poi che il popolo s’imbizzarrisce e magari vota come non dovrebbe, da cui la canea sui populismi. Certo, tutti questi effetti erano facilmente prevedili e alcuni studiosi critici li avevano annunciati ma le tempeste ideologiche e gli spezzoni di società che le promuovono durano finché non vengono palesemente falsificati, ovvero estensivamente ed intensivamente contraddetti dai fatti. Poiché lo Stato e l’interesse nazionale hanno una intenzionalità collettiva, questa ci mette un po’ di tempo a cambiare assetto, il tempo in cui i fatti reclamano una diversa interpretazione, quindi una diversa élite. L’epistemologo T. Kuhn, ci ha fatto su una teoria madre per tutti i sistemi di pensiero, il paradigma ordinante resiste fino a che i fatti fuori teoria non sono così tanti e clamorosi da spingere qualcuno a trovare un nuovo paradigma da cui far discendere un diverso sistema di pensiero in grado in interpretare anche le scomode anomalie.
Ma questo sarebbe niente se, sempre a conti fatti, le nazioni dominanti non avessero fatto il bilancio da cui emerge con impietosa chiarezza che USA e UK sono in pauroso deficit commerciale (e Germania e Cina sono in pauroso surplus), dollaro e sterlina non hanno un futuro pari al loro passato, Brasile, India e Cina non staranno a lungo nell’FMI e nella Banca Mondiale a farsi trattare da uscieri quando assieme fanno un quinto del PIL mondiale (e possono solo crescere), il sistema di cui sono centro ovvero l’Occidente è in sistematica contrazione demografica e di ricchezza complessiva, la favola bella che ieri c’illuse – le magnifiche sorti progressive dell’economia smaterializzata –, oggi non c’illude più, o Ermione.
Si aggiunga quell’ostinato di Putin, i costi insostenibili dell’impero-mondo che alla fine perde tutte le guerre (ad eccezione della prima “limitata” in Iraq di Bush senior), le vie setose basate sulla reciprocità confuciana dei cinesi, i pazzi cavali arabi dell’Arabia Saudita petro-wahhabita che vorrebbero scorrazzare su tutto l’ecumene musulmano che consta di ben 1,5 miliardi di persone, le sinistre populiste sud-americane oggi domate ma sempre pronte a rifarsi vive visto che le ragioni che le determinarono non sono scomparse, gli sgangherati europei che viaggiano a sbafo nell’Alleanza atlantica e occupano congrue porzioni delle riserve valutarie mondiali con l’euro ed oltretutto deprimono la circolazione della ricchezza perché hanno creduto così alla lettera alla favola del meno Stato e più Mercato da votarsi alla monastica austerity, dogma della teologia teutonica. La teoria non funziona più ed i fatti fuori teoria hanno raggiunto il limite, urge quindi un cambio di paradigma, un nuova dottrina immagine di mondo, una nuova élite.
Il bello degli anglosassoni è che da secoli perseguono con inflessibile coerenza il loro esclusivo interesse nazionale ma o riescono a farti sentire partecipe di ciò perché anche tu iscritto al “mondo civile”, cioè il loro modo di vivere e pensare il mondo o quando scartano bruscamente, non ti resta che ammirarli perché sono intrinsecamente “rivoluzionari”[9]. Sono rivoluzionari per un motivo ben semplice: sono realisti. Il realista non detta l’idea al mondo, registra la realtà ed adegua l’idea ad essa per cui se il cumulo dei fatti che fa la realtà passa bruscamente di stato, eccoli subito pronti a dire il contrario di quello dicevano ieri. Tu invece sei idealista e prima di tutto coltivi idee che rimbalzano sulla realtà non importa quanto corrosive ti sembrino (secondo un principio di relazione inversa, più ti sembrano corrosive più non corrodono nulla) e poi ci metti decenni a modificare il tuo complesso sistema di immagine di mondo perché se fino a ieri eri fondatamente “internazionalista” hai qualche difficoltà oggi a riconoscerti “nazionalista”, stante che nonostante coltivi idee e concetti come ogni buon idealista non è poi sempre chiaro che significato preciso tu dia a questi enti sfuggenti che spesso utilizzi secondo l’andazzo del “così fan tutti”.
In più collezioni concetti ma ti guardi bene da capirne l’architettonica perché ti hanno insegnato che un “sistema di idee” è intrinsecamente totalitario visto che si occupa del totale. Tu non devi occuparti del totale, ci pensa Dio o la Mano Invisibile o la lotta di classe o le ferree leggi della storia, non è roba da essere umani. Fatti un bel convegno sulla vitalità inossidabile del concetto di comunismo e non preoccuparti che in quanto storicista dovresti preoccuparti di credere che ci sia qualcosa che è inossidabile al corso del tempo, non riflettere ovvero applicare i concetti a se stessi. Sogna, che a rimboccare le coperte ci pensiamo noi.
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Stante quindi che quello con cui abbiamo a che fare è sempre l’interesse nazionale, interpretato in questo o quel modo, a seconda della sensibilità che i decisori politici hanno nei confronti di questa o quella élite economica e/o finanziaria a cui sono legati da forti cointeressenze e del “calcolo politico” che deve portargli consenso per essere riconfermati al potere, è da vedere ora il significato dei due eventi cataclismatici del 2016: la Brexit e Trump.
La duplice sequenza del riorientamento strategico delle due nazioni dominanti converge verso un significato ben preciso: riappropriarsi della piena intenzionalità politica a governo di tutti gli altri processi. La Gran Bretagna ha disdetto la sua partecipazione alla rete giuridico-politica-commerciale che la legava all’Europa, gli USA hanno disdetto la loro partecipazione alla rete giuridico-commerciale del TPP, hanno definitivamente abbandonato l’idea del TTIP, hanno annunciato la ricontrattazione del NAFTA, mostrano segnali di prossima revisione della posizione nell’ONU, dichiarano non più scontata la NATO e prima o poi sarà conseguente revisionare anche l’FMI e la World Bank. Ovviamente la WTO è defunta e qualcosa avrà effetti anche sulla BIS[10]. Dal Washington consensus al Washington dissensus. Questo “sciogliersi dai legami” è stato sinora inteso come un possibile ripiegamento su se stessi, ripiegamento decisamente improbabile per nazioni che, come nel caso degli Stati Uniti, fanno il 24% del PIL mondiale con il solo 4,4% della popolazione mondiale e che, come nel caso di Londra, rappresentano la seconda piazza banco-finanziaria planetaria ed è pur sempre erede di quelle genti che, dopo il colonialismo, ha fatto il più grande impero della storia. Si disdice la partecipazione ad alcune reti, ma per farne altre, con altra logica. s
Ed infatti, Theresa May ha fatto un discorso in cui ripete più volte il concetto di Gran Bretagna Globale (qui), accompagnandolo da quanto da noi già anticipato tre settimane prima del voto di giugno (qui) ovvero la formazione di un nuovo Commonwealth e la possibilità di diventare un macroscopico risucchio di capitali liquidi e financo un paradiso fiscale nei confronti dei capitali europei. Di contro, inascoltato dai frastornati media ed esperti la cui agilità mentale è pari a quella di un bradipo sazio di valium, Trump ha annunciato di voler riformulare integralmente la rete degli amici-nemici del gigante americano, andando da ognuno a trattare possibili accordi bilaterali. Insomma da “globale” si torna a “inter-nazionale”. A suo tempo, H. Kissinger, aveva disegnato un modello detto “hub & spoke” ovvero “mozzo e raggi” come nella ruota di una bicicletta; cosa guiderà la composizione di queste reti centrate rispettivamente sugli hub di Londra e Washington?
Una specifica interpretazione dell’interesse nazionale, quella che pone come soggetto l’agente geopolitico (USA, UK) e come oggetto una rete di partner ed alleati definiti tali per uno o più aspetti tra quelli che compongono l’interesse nazionale: aspetti economici, commerciali, finanziari, politici, militari, culturali e financo religiosi. Non solo uno o più di questi, a guida della logica per tessere le singole relazioni ma uno o più di questi subordinati all’interesse primo che diventa quello geopolitico come logica che tesse l’intera rete. L’interesse geopolitico, ovvero la versione esterna dell’interesse nazionale (poiché ogni sistema ha un interno ed un esterno), comune a quelle che sono due isole (gli Stati Uniti con un muro a sud, montagne e foreste a nord e due oceani ai lati possono essere intesi anch’essi come un’isola, per quanto di dimensioni semi-continentali) è garantirsi in vario modo il controllo su porzioni significative del mondo ovvero impedire che la più vasta porzione di mondo esistente, ovvero l’Eurasia, si saldi in sistema auto-organizzato a sua volta centrato su i suoi tre poli principali: Germania, Russia, Cina. Ne va della loro “centralità”, ovvero della posizione in cui l’interesse nazionale domina e non subisce.
La logica operativa che animerà il nuovo disegno sul mondo delle due nazioni anglosassoni ricorrerà alle due semplici e sempiterne tattiche di relazione tra Stati: il “divide et impera” ed “il nemico del mio nemico è mio amico”. La logica verrà applicata tenendo conto del fatto che un potenziale partner può essere utile magari per ragioni di fornitura di materie prime o per ragioni geografiche o per ragioni commerciali più ampie o per ragioni valutarie o per ragioni di rottura di schemi locali (ovvero le unioni regionali che sono i sistemi naturalmente avversari per chi vuole controllare porzioni di mondo stando su un’isola) o per ragioni militari in vista di potenziali conflitti d’area, per una o più di queste definizioni, perché utili in sé o per sottrarne la potenziale utilità a gli avversari. Le trattative per formare le reti hub & spoke si avvarranno della tattica del “premi e punizioni” ovvero mostrare all’ambiente delle trattative generali, quali vantaggi esclusivi avranno coloro che si sottometteranno per primi o con minori resistenze e viceversa quali tragici eventi potranno capitare a chi recalcitra, defeziona o flirta col nemico. In questo senso, il Messico diventa il caso paradigmatico, quello in cui ne punisci uno per educarne cento, i cento che saranno chiamati ad altrettante, complesse, trattative bilaterali. È un gioco difficile e molto rischioso ma quali altre alternative concrete avevano USA ed UK?
Naturalmente, se volete perdere tempo e confondervi le idee, potrete seguire analisi e profezie settoriali e così economisti potranno spiegarvi quale assurdità è per l’UK isolarsi dall’UE o seguire sociologi che vi spiegano i mali della rinuncia alla “società aperta e cosmopolita” o seguire politici che non capiscono come la Gran Bretagna possa vende armi alla Turchia o specializzati in globalizzazione dirvi che la rete commerciale dell’Uno-Mondo è un fatto irreversibile, un destino-mondo che solo un parvenu come Trump o una sbiadita funzionaria di second’ordine come la May possono pensare di contraddire. Del resto, cambiando paradigma, gli “esperti” di settori diversi da quello che si affermerà, son destinati a non com-prendere gli eventi, perché ne prenderanno uno o due alla volta.
Ma se volete una opinione franca, domandatevi se chi vi propone analisi ha il quadro generale, se non è in conflitto cognitivo tra l’apparato epistemico di cui è specialista e l’oggetto che deve interpretare e domandatevi anche se è mai possibile che il mondo venga fatto dalla collezione delle figurine Panini degli Uomini Illustri. Il mondo e la storia sono fatti da processi, i processi vengono mossi da interessi, gli interessi sono promossi da questa o quella rete di interessati che deve mediare il proprio egoismo con l’interesse di altre reti, con quello della comunità di cui fa parte, con quello dello Stato che ha un suo specifico interesse nazionale di tipo strategico e comunque tutto – alla fine – risponde al semplice setaccio del “funziona-non funziona”. Gli uomini e le donne di copertina sono gli interpreti di una sceneggiatura che altri scrivono e di cui molta parte si scrive addirittura da sola, stante che stabiliti alcuni principi primi, il resto va più o meno di conseguenza ed i margini di scelta son di molto limitati, non determinati ma limitati.
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In molti s’era capito che dal mondo ordinato dall’economico (quello che chiamiamo con termine strutturalista, a volte fuorviante, “capitalismo”) si poteva uscire solo usando l’ordinatore politico poiché la contraddizione funzionale base del moderno è da sempre quella tra Stato e mercato, quindi tra il politico e l’economico. Le nazioni dominanti oggi tornano ad abbracciare lo Stato ed il politico in chiave geopolitica, una geopolitica di potenza, unilaterale, conflittuale, che premia le nazioni anglosassoni con beneficio per le loro élite ma anche un po’ di più il loro popolo ed infatti ecco che la May è conservatrice, sì, ma “sociale” e Trump vince coi voti degli operai della cintura della ruggine. L’appello al popolo, lo stesso di Sieyés ai tempi del Terzo Stato, ricorre laddove una élite fa alleanza col popolo contro un’altra élite, quella dei neolib inglesi ed americani oggi in declino.
A questo punto, poiché il gioco diventa disputarsi l’intenzione politica nella competizione tra Stati, si spera che le brillanti menti critico-critiche si ricordino che la disputa fondamentale di chi deve gestire l’intenzionalità politica di uno Stato è ancora quella di Erodoto: Uno, Pochi, Molti ovvero una qualche forma di dispotismo più o meno ben intenzionato e popolare, una qualche forma di oligarchia che promuove un interesse particolare vestendolo da generale e l’unica forma che fa coincidere l’interesse nazionale con quello generale: la democrazia reale.
La speranza è l’ultima a morire ma la Storia ci insegna che è morta molte volte e questa volta il funerale potrebbe essere davvero molto triste, lungo e costoso.
I temi trattati nell’articolo sono più ampiamente trattati nel libro dell’Autore in “Verso un mondo multipolare”, Fazi Editore, 2017.
Pubblicato sul blog dell’autore il 31 gennaio 2017.
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Note
[1] Il conflitto Stato-mercato viene addirittura prima di quello capitale-lavoro in quanto questo secondo è proprio solo della specifica forma che si diede lo Stato moderno occidentale e dipende dal bottino nazionale da spartirsi.
[2] Riuniti in una, a volte formale, a volte informale, confederazione cioè alleanza detta Occidente (anche se il Giappone è in Oriente).
[3] Un effetto di questa narrazione che poi è diventata stratega operativa è stato quello di ritenere persa l’industria visto che s’andava a competere senza barriere con sistemi il cui costo del lavoro era non comparabile. Oggi, Francia, UK ed USA hanno una contribuzione alla determinazione del PIL nazionale da parte dell’industria che oscilla tra 19% ed il 21%. La media mondiale è 29%, la Germania ha un 30% e la Cina addirittura un 43%. È dall’industria e non certo dai servizi che si genera il disavanzo che vede gli USA importare quattro volte di più di quanto riescono ad esportare in Cina e l’Europa il doppio di quanto esportano sempre ai cinesi. La perdita dell’industria ha avuto contraccolpi occupazionali gravi ma ha anche portato a quella interdipendenza che, a volte, rende impossibile perseguire l’interesse nazionale. I libri di fanta-economia di Rifkin e tutta l’apologia dell’immateriale, del libero scambismo, del vantaggio ricardiano ed altre sciocchezze ben confezionate, purtroppo hanno avuto l’effetto nefasto di far credere vero che il mondo si potesse ordinare con Internet ed il “doux commerce”, oggi scopriamo con dolore, che non è così. Del resto, nel 1350 c’era chi credeva che la peste fosse una punizione divina e non l’effetto della mancanza di una scienza medica, anche se i veneziani, inventando la “quarantena”, cioè il parziale controllo delle frontiere, avevano empiricamente trovato uno straccio di prima soluzione.
[4] La lettura della globalizzazione effettuata al tempo vedeva un ennesimo tentativo coloniale del primo mondo sul terzo e non vide con sufficiente chiarezza l’alleanza tra classi dominanti del primo, del secondo e del terzo.
[5] Come è noto, negli Stati Uniti ci sono molte cattedre accademiche appaltate ad estimatori di Negri-Hardt, Foucault e financo genuini marxisti. Forse, ai portatori di una corposa teoria centrata sull’interesse delle nazioni dominanti, la cattedra (come ha detto un mio amico) gliela darebbero, ma in testa. Anche il “liberale” ha il suo limite.
[6] Essendo europei, usiamo disinvoltamente il concetto di Stato e nazione come equivalenti perché i due concetti si sovrappongono alla perfezione nella geostoria europea ma si tenga conto che Stato è una cosa, nazione un’altra. Qui come altrove, per interesse nazionale si dovrebbe intendere “interesse di quel specifico Stato” senza implicazioni etniche.
[7] Come “populismo”, che è una categoria recente che oltre a rinominare la demagogia non si capisce bene a cosa serva se non a fare confusione, nonostante gli sforzi di Laclau e Mouffe. Demagogia, in filosofia politica, è detta anche oclocrazia (Polibio).
[8] Il capitalismo “anglosassone” tendenzialmente liberal-imperialista, il capitalismo “germanico” tendenzialmente ordoliberale dai tempi di Otto von Bismarck ovvero da prima che fosse pensato come “ordoliberale”, il capitalismo francese tendenzialmente statalista, il capitalismo giapponese o asiatico tendenzialmente imperiale (imperiale ed imperialista sono due concetti diversi) dalla sua origine Meiji alla versione recente del PC cinese.
[9] Rivoluzione inglese detta “gloriosa” e quella americana che poi era una guerra d’indipendenza, quella industriale dei britannici e quella postindustriale-digital-informativa degli americani, quella sessuale, quelle scientifiche, quelle tecnologiche. Rivoluzione è in effetti un concetto anglosassone, preso in prestito da Marx, forse perché era sassone o forse perché troppo eccitato da quella francese.
[10] TPP = accordo commerciale tra USA, alcuni stati del Sud America, del Pacifico, dell’Asia; TTIP = simile al TPP tra USA ed UE; NAFTA = accordo commerciale già in essere USA-Messico-Canada; FMI e World Bank = istituzioni bancarie e finanziarie già derivate dagli accordi di Bretton Woods; WTO = Organizzazione del commercio mondiale; BIS = Banca dei regolamenti internazionali.