di Paolo Bartolini
Un caso editoriale, per il senso comune, è quello suscitato da una pubblicazione capace di distinguersi dalle altre in forza del numero di copie vendute e della risonanza mediatica ottenuta. Per noi, invece, un vero caso editoriale è quello rappresentato da un libro capace tanto di colmare un vuoto di sapere quanto di provocare il pensiero di chi legge “obbligandolo” a mettere in discussione le proprie coordinate. Il volume scritto da Pierluigi Fagan per l’editore Fazi, e intitolato Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell’era Trump (in uscita oggi nelle librerie), rientra tra le poche opere degli ultimi anni degna di essere inclusa nel secondo tipo di pubblicazioni appena descritto. Fagan è un intellettuale acuto, ironico e decisamente informato. Le sue analisi geopolitiche, sostenute da una vasta cultura che spazia tra filosofia, politica, storia, geografia e scienze (soft e hard), offrono in tempi inquieti come gli odierni, tentati troppo spesso dalla propensione alla semplificazione, delle buone occasioni per rimettere in moto il pensiero.
Questo libro si propone di descrivere, con spirito critico e vocazione costruttiva, la transizione epocale che sta trascinando l’Occidente e il mondo intero verso nuovi assetti prima impensabili. Lo scopo di tale sforzo, e Fagan non ne fa mistero, è quello di innescare un processo capace di mettere in discussione le convinzioni, ormai disfunzionali, che una mentalità anacronistica continua a riprodurre nonostante le condizioni di realtà circostanti siano mutate radicalmente. Stiamo infatti entrando nell’era complessa attrezzati ancora con i vecchi arnesi intellettuali della modernità. L’autore, tuttavia, non si accontenta di sottolineare l’inadeguatezza delle attuali forme di pensiero e di azione, bensì prova a tracciare una “narrazione organica” della situazione che stiamo vivendo, definendone le coordinate storiche, culturali e geopolitiche. Fagan ci aiuta, e già per questo il suo libro andrebbe letto, a orientarci nel caos contemporaneo senza tacere le difficoltà (enormi) implicate nel ripensamento complessivo degli equilibri geopolitici e dei modi di porsi della vecchia Europa rispetto ad altre culture plasmate da antropo-logiche che, piaccia o meno, non coincidono con le nostre.
Per inquadrare la transizione globale che il pianeta Terra sta attraversando, inclusi i suoi ingombranti ospiti che definiamo, con inguaribile ottimismo, “umani”, l’autore muove da indispensabili considerazioni demografiche (basti dire che all’inizio del secolo scorso si contavano 1,5 miliardi di esseri umani ed entro il 2050 potrebbero essercene quasi 10 miliardi) per poi delineare con dovizia di particolari le contraddizioni – economiche, ecologiche e politiche – che stanno lacerando la convivenza tra popoli estremamente diversi fra loro, ma unificati da un destino sempre più “comune”. Il pianeta, suggerisce Fagan, è l’unica casa che abbiamo e sarà inevitabilmente sempre più affollata. Rinunciare a comprendere la lingua e le ragioni dei nostri vicini significa peccare di hybris, dimostrando di non aver capito minimamente quale tipo di futuro ci aspetta (un futuro “complesso”, caratterizzato dall’implosione delle vecchie egemonie a favore di un nuovo ordine/disordine pluricentrico ancora tutto da costruire).
Cambiamenti climatici, terrorismo, scarsità di risorse, frizioni tra culture diverse, questi e altri fenomeni denotano una crisi sistemica senza precedenti. Se pensiamo di affrontarla con i nostri vecchi schemi di comprensione (gli stessi che hanno prodotto il problema) non solo ci sbagliamo, ma rischiamo il “fallimento adattivo”. Altrettanto folle sarebbe pensare di demandare le decisioni sul nostro futuro a quei professionisti della politica che hanno dimostrato, da alcuni decenni a questa parte, di non saper guardare oltre il loro interesse immediato, adeguandosi al ruolo (in)grato di maggiordomi del potere finanziario ed economico. Dobbiamo tutti diventare, almeno in linea di principio, “attori del cambiamento”, ridando linfa alla democrazia e alimentando un dibattito diffuso e informato sulle soluzioni possibili per accedere all’era complessa in maniera saggia, cooperativa e non distruttiva.
Dopo aver presentato il paradigma della complessità e posto in evidenza la pericolosità del primato dell’economia sulle altre sfere di vita e conoscenza, l’autore ci ricorda sobriamente (sì, perché Fagan ha superato da molto tempo l’irruenza adolescenziale che si compiace di essere anti-qualcosa) che il capitalismo si è potuto sviluppare, per come lo abbiamo conosciuto, solo generando un ordine interno (all’Occidente) che riproduce un fenomenale disordine esterno. Ma oggi, che il mondo diventa multipolare, non è possibile pensare di continuare in questa direzione.
Se il nostro modo di stare al mondo si è basato sul dominio di vaste parti eccedenti il nostro specifico geostorico, l’improvvisa inflazione dell’Altro mondo, la diluizione del nostro peso, il declino della nostra supremazia materiale e culturale dicono che dovremmo rivedere molte cose in ambito sociale, politico, istituzionale, economico e culturale (p. 30).
Quel che ci serve, a ben vedere, è una responsabilità complessa che pervada l’intera società, perché stiamo attraversando una transizione di fase inedita. Ci viene in mente, a tal proposito, l’invito di Edgar Morin (un pensatore frequentato assiduamente da Fagan) a dotarci di un’ecologia dell’azione capace di calibrare continuamente le nostre iniziative facendo i conti con gli effetti molteplici e complessi generati dal nostro agire sulla realtà. L’incertezza costitutiva dell’era complessa, in altre parole, richiede un’arte sottile che non trascuri i cicli di feedback attivati dalle interazioni quotidiane fra sistemi differenti (biologici, psicologici, sociali e geopolitici). Purtroppo la cultura moderna è «più attenta alle cose che alle relazioni» (p. 34), ciò fa sì che essa fatichi enormemente a comprendere la natura del “limite” e dell’interdipendenza tra soggetti non isolati, ma piuttosto attraversati intimamente da legami e relazioni costitutive.
L’autore dedica molte pagine allo studio attento dei soggetti geopolitici odierni e delle relazioni (di cooperazione o, più spesso, di competizione) che inseriscono ciascuno di essi in una trama cangiante di scambi, interessi e conflitti. Chi volesse conoscere in maniera seria ed esaustiva la condizione attuale degli Stati Uniti d’America, dell’Europa, della Cina, dei principali paesi sudamericani, della Turchia, dell’Africa, dell’India, del Vaticano (e Fagan qui dedica alcuni passaggi di grande intelligenza alla figura di papa Francesco) e così via, troverà nel libro una mappa affidabile dei rapporti di forza, delle prospettive di espansione, delle crisi molteplici che attraversano lo scacchiere internazionale. L’esame attento degli Stati coinvolti nel “gioco dei giochi” (quello geopolitico) risulta indispensabile per giungere, nell’ultimo capitolo del libro, all’interrogativo più importante: come adattarsi all’era complessa? Non volendo svelare troppo al lettore curioso, concludiamo queste righe con alcune risposte estratte dalle ultime pagine di questo lavoro imperdibile, tutte riferite al ruolo che l’Europa potrebbe giocare una volta abbandonate le pessime idee, opposte e complementari, della moneta unica e del ritorno unilaterale agli Stati-nazione.
Di fronte al nuovo scenario complesso è necessaria una riformulazione adattativa dei nostri modi di pensare e di organizzare la vita associata. Bisogna altresì evitare di cadere nell’ansia della risposta semplice e immediata: non c’è nulla di semplice e immediato che risolva un problema adattivo di tale portata. Occorre cioè domandarsi che posizione, consistenza e ruolo si vorrebbe avere nei prossimi trent’anni e conseguirne una strategia di medio-lungo respiro: occorre progettare… Il fatto è che dobbiamo imparare a ragionare per sistemi, e quello primario è la nostra società politica, lo Stato oggi in parziale transizione verso una possibile unione con altri Stati europei. È questo il veicolo adattivo di cui dobbiamo decidere la funzione, la forma, l’organizzazione, le finalità, i processi decisionali, il tempo che abbiamo per apportarvi modifiche anche sostanziali mentre continua a svolgere il suo ruolo adattivo. Si tratta cioè di definire come cambiare progressivamente la nave mentre questa continua a navigare (pp. 279-280).
Se l’Europa intraprendesse un proprio autonomo percorso geopolitico e si dissociasse dalle imprese più temerarie degli americani, questo potrebbe rappresentare un forte stabilizzatore per un mondo più pacifico. Gli americani agiscono, solitamente, in nome della legittimità culturale complessiva della civiltà occidentale, se gli si toglie questa delega, tornano uno Stato che agisce con una legittimità ridotta e ben meno fondata (p. 285).
Siamo proprio noi europei – gli inventori del sistema occidentale – a doverci prendere la responsabilità di ripensare al futuro di un mondo nuovo e, questo nonostante si sia in decrescita, rivolti a prospettive oggettivamente limitanti, anziani e poco propensi a rivoluzioni. Non l’innovazione degli smartphone, ma quella che ha in oggetto le epoche, le idee, la mentalità, le istituzioni sociali, l’innovazione profonda, epocale, radicale. Di questo c’è bisogno. L’Europa, data l’interdipendenza che la lega ai paesi dell’Eurafrasia, deve porsi in maniera cooperativa, attivando fitte e ragionate reti di scambio e relazione, al fine di affrontare l’adattamento all’era complessa (p. 286).
Molto altro si potrebbe dire di quest’opera prima di Pierluigi Fagan, ma la ricchezza e l’ampiezza di vedute che ha il coraggio di dispiegare meritano una lettura completa e approfondita, a cui con piacere rimandiamo.
Pubblicato su Megachip il 13 gennaio 2017.