di Jacques Sapir
Le recenti dichiarazioni di Donald Trump, e la sua politica di pressione sui grandi gruppi industriali attraverso messaggi inviati via Twitter; ma anche dichiarazioni “molto francesi”, come quelle di Arnaud Montebourg sul «produrre francese» hanno riproposto la questione delle moderne forme di protezionismo. Nel dibattito che si apre oggi intorno alla campagna per eleggere il prossimo Presidente della Repubblica, è chiaro che questo problema occuperà una posizione di primo piano. Un certo numero di candidati dichiarati – o di candidati alla candidatura – hanno preso posizione su questo tema. Ma in realtà, questo dibattito c’è già stato.
Nel 1930, dopo la Grande Depressione, un certo numero di economisti sono passati da posizioni tradizionaliste a favore del “libero scambio” verso una visione più protezionista. John Maynard Keynes era uno di questi, e certamente quello che ha esercitato l’influenza più significativa. Può essere utile quindi tornare a questo dibattito, e alla conversione di un uomo che comunque credeva nel libero scambio, per cercare di capire che cosa gli fece cambiare idea.
L’importanza del contesto
Il saggio di J.M. Keynes sulla necessità di una autosufficienza nazionale di cui vogliamo occuparci è stato pubblicato nel giugno 1933 sulla Yale Review. Si può pensare che questo testo sia stato scritto tra la fine del 1932 e i primi mesi del 1933. È quindi perfettamente contemporaneo alla elezione di Franklin Delano Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti.
Questo testo si rivela di lettura stranamente attuale e inquietante[1]. Oggi, come nel 1933, le ragioni per dubitare del libero scambio si accumulano. Gli esperti della Banca Mondiale hanno drasticamente rivisto al ribasso le loro stime sui “guadagni” derivanti dalla liberalizzazione del commercio internazionale[2] , benché siano stati calcolati senza tenere conto dei possibili costi. Allo stesso modo, uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (United Nations Conference on Trade and Development, UNCTAD) dimostra che il “Doha Round” dell’Organizzazione mondiale del commercio (quarta conferenza interministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio, tenuta a Doha nel novembre del 2001, N.d.T.) potrebbe costare ai paesi in via di sviluppo fino a 60 miliardi di dollari, mentre porterebbe loro solo 16 miliardi di guadagni[3]. Lungi dal promuovere lo sviluppo, l’Organizzazione mondiale del commercio potrebbe quindi contribuire alla povertà globale.
Perfino gli investimenti diretti esteri, a lungo considerati come una panacea per lo sviluppo, sono ora messi in discussione[4]. I meccanismi di concorrenza cui si affidano molti paesi per cercare di attirarli hanno evidentemente effetti negativi in materia di protezione sociale e ambientale[5] .
In questo contesto, le proposte del primo ministro francese Dominique de Villepin sul “patriottismo economico” nell’inverno 2005-06 non appaiono più come un’aberrazione ideologica. Queste proposte affondano le loro radici in una lunga tradizione di pensiero economico, che è attualmente oggetto di una importante ripresa, sia nelle proposte di diversi esponenti politici francesi (da Marine Le Pen a Jean-Luc Mélenchon, passando per Arnaud Montebourg e la sua campagna sul “made in France“) sia del nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Queste proposte si dimostrano realmente vicine al pensiero di Keynes nel 1933.
Il testo di Keynes deve essere letto nel suo contesto. Probabilmente scritto nelle ultime settimane del 1932, nella produzione di Keynes si situa quindi tra due grandi opere, il Treatise on Money e la General Theory, che segna la rottura definitiva di Keynes con il pensiero economico allora dominante. Coincide con un punto di svolta nel pensiero dell’autore. Si può considerare che il Keynes degli anni ’20, anche se è perfettamente lucido sui limiti della teoria economica dominante del suo tempo, e questo in particolare per quanto riguarda la moneta, resta un liberale[6] nel significato dato a questo termine alla fine del XIX secolo. Fino alle disastrose elezioni del 1924, che vedono il crollo del partito liberale, resta anche affiliato ai Whigs, per i quali anima la summer school nel 1923[7] . La sua adesione al libero scambio è profonda. La sua radicale evoluzione intellettuale non incomincia prima della fine degli anni ’20, ed è ben lungi dall’essere completata nel 1932-33. Del resto, questo testo è destinato a una rivista americana, che lo pubblicherà solo pochi mesi dopo l’assunzione della carica da parte di Franklin Delano Roosevelt. Keynes quindi non solo scrive in un momento di grave crisi economica e di evoluzione personale. Scrive anche per lettori che vivono in mezzo a un’economia che sta crollando e che devono mettere a confronto le loro convinzioni più sacre, soprattutto sulle virtù del libero scambio, con la drammatica realtà della Grande Depressione.
Le argomentazioni di Keynes
Le argomentazioni sviluppate da Keynes meritano la massima attenzione. Bisogna sottolineare che non si limita a discutere la questione delle protezioni tariffarie, ma parla dell’autosufficienza nazionale. Di fatto, qui si arriva ai confini dell’autarchia. Un secondo punto importante è che Keynes si concentra sul movimento dei capitali più che su quello delle merci. È dalla questione della internazionalizzazione del capitale che affronta la sua sfida all’internazionalismo economico. L’approccio può sembrare strano, perché il protezionismo è legato principalmente alla questione degli scambi di beni e servizi.
In questo testo Keynes non mette in discussione la virtù economica teorica del libero scambio, anche se pensa che si stia rapidamente esaurendo. Ritiene invece che i suoi effetti sociali siano ormai insopportabili. Il cuore del suo argomento è molto vicino alle tesi di Veblen sugli effetti sociali e politici dell’emergere di una classe di capitalisti passivi[8]. Si deve qui notare che si era già sperimentato alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX secolo un processo di accumulo accentuatissimo di ricchezza. Infatti i dati sulla distribuzione di reddito o di ricchezza mostrano che l’“1%” più ricco della popolazione accumula una quota maggioritaria del reddito e della ricchezza, una situazione a cui si tende anche oggi. È nella contrapposizione tra la realtà sociale dei produttori, inseriti all’interno di un contesto nazionale specifico, e la dimensione apolide dei capitalisti che Keynes identifica la contraddizione principale. Oggi potremmo riformulare la sua posizione sia nel vocabolario marxista sia in quello di un istituzionalismo basato sui recenti progressi della psicologia sperimentale. Nel primo, si direbbe che la alienazione propria dei lavoratori salariati diventa particolarmente insopportabile quando i salariati e i capitalisti si muovono in spazi politici diversi. Nel secondo, analizzeremmo come la separazione tra il contesto dei produttori e quello dei proprietari sia suscettibile di determinare un conflitto insolubile di preferenze, poiché queste sono costruite proprio dai contesti[9].
Keynes d’altra parte vede in questa contrapposizione il rischio di una guerra. Il suo parere è che ciò che noi oggi chiameremmo globalizzazione non è favorevole alla pace. Questa non può essere garantita se non con un ritorno alle strutture nazionali. La proliferazione dei conflitti armati e degli interventi militari, a partire dalla fine della guerra fredda, e le tensioni crescenti sempre più violente nell’Unione europea sembrano dargli tragicamente ragione.
La difesa dell’autosufficienza per Keynes non si giustifica solo in nome della pace. Il libero scambio, in particolare la libera circolazione dei capitali, toglie alle nazioni la libertà delle loro scelte sociali. Per Keynes, è interessante notarlo, il libero scambio col tempo condanna l’esistenza della proprietà privata e impedisce il funzionamento delle istituzioni democratiche. Questo è un punto che oggi possiamo condividere pienamente[10].
Egli vi vede anche un ostacolo alla nascita della necessaria diversificazione dei percorsi all’interno del capitalismo. Perché Keynes non parla in nome di una rivoluzione anticapitalista. Al contrario, si pone come difensore dei valori di una società aperta e pluralista. Robert Skidelsky lo considerava «l’ultimo dei grandi liberali inglesi»[11]. Ma è chiaro che Keynes non vedeva un futuro diverso da caos, dittatura e guerra, se si fosse continuato a perseguire il libero scambio. Quest’ultimo porta ad accettare come valori solo quelli della finanza. Il suo rifiuto del libero scambio è anche il rifiuto della tendenza a ridurre tutto a merce, un processo in cui si mostra la distruzione finale della cultura umanistica occidentale. Da molte prospettive Keynes si pone allora come il padre spirituale di tutti i movimenti di protesta che oggi sostengono che “il mondo non è una merce”.
Come valutare oggi le argomentazioni di Keynes
Le argomentazioni di Keynes, per quanto da molti punti di vista siano brillanti e moderne, non sono prive di problemi. Tuttavia, questi tenderebbero a rafforzare le sue argomentazioni sull’autosufficienza.
Non si può che essere sorpresi, leggendo il testo, per la sua difesa unilaterale del libero scambio nello sviluppo economico del XIX secolo. Si vede bene che si tratta di una lettura quantomeno anglocentrica della storia, a meno che non si tratti di una misura precauzionale per evitare di offendere il potenziale lettore, presumibilmente liberale. Infatti, a parte la Gran Bretagna, tutti i paesi si sono sviluppati grazie al protezionismo. Il “blocco continentale” napoleonico ha svolto un ruolo importante nel formarsi delle condizioni necessarie alla rivoluzione industriale in Francia. Gli Stati Uniti sono emersi come una potenza industriale attraverso il protezionismo, in particolare la “McKinley Tariff”. Le traiettorie di sviluppo di Giappone, Germania e Russia, in particolare, con le tariffe protezioniste attuate da Vyshnegradsky (ministro delle finanze in Russia tra 1887 e 1892) e rafforzate da Sergej Witte (suo successore)[12] e nel XX secolo in Corea del Sud e Taiwan sono perfetti esempi a sostegno delle tesi protezionistiche di F. List[13].
Dal punto di vista teorico, oggi sappiamo che l’introduzione di ipotesi realistiche inverte i risultati dei modelli che dovrebbero “dimostrare” la superiorità del libero scambio. Lo stesso Paul Krugman ammette che l’unica cosa che possiamo dimostrare è che il libero scambio è meglio della totale assenza di commercio[14]. Ormai è impossibile dimostrare che il libero scambio è migliore del protezionismo, e si può dimostrare invece che quest’ultimo è superiore al libero scambio in molte situazioni. Siamo quindi molto lontani dalle certezze teoriche di Keynes nel 1933. In realtà, se si combina l’introduzione dei concetti delle strutture di preferenza contestualizzate a quella delle asimmetrie informative e dell’incertezza sistemica, si può supporre che sul medio periodo i sistemi chiusi non siano inferiori a quelli in cui c’è libero scambio (ma lo sarebbero senza dubbio se confrontati a sistemi di scambio regolati da un protezionismo messo al servizio di una vera politica industriale).
L’introduzione di ipotesi realistiche fa saltare incontrovertibilmente il quadro teorico marshalliano al quale Keynes nel 1932 continua ad aderire. Infatti, è nel 1944-45 che Keynes si sarà liberato dalle catene di questo pensiero economico obsoleto e svilupperà quella che può essere considerata come la base di un’analisi macroeconomica realistica dell’economia internazionale[15]. Purtroppo, quando profonde le sue ultime energie nella negoziazione di Bretton Woods, per strappare all’arroganza americana un sistema che tenesse conto della lezione della crisi esplosa tra le due guerre, non gli restano che pochi mesi di vita.
Gli avanzamenti teorici recenti, proprio quelli che i sostenitori dell’economia standard liberale rifiutano di riconoscere, confermano le più radicali intuizioni keynesiane. Lo si è già visto per quanto riguarda il concetto di illusione nominale, un aspetto centrale nella teoria keynesiana dell’inflazione[16]. Domani lo si vedrà nella teoria del commercio internazionale.
L’attualità di Keynes oggi
È quindi utile oggi leggere queste righe, pubblicate nel 1933. Siamo di fronte a una triplice esortazione ad abbandonare il libero scambio e adottare politiche protezionistiche in nome di argomenti economici, politici e morali.
Economicamente, il libero scambio non è la soluzione migliore e comporta considerevoli rischi di crisi e di accrescimento delle disuguaglianze. Mette in competizione diversi territori non in base alle attività umane che vi sono messe in atto, ma di scelte sociali e fiscali di per sé molto discutibili[17]. La liberalizzazione degli scambi non ha beneficiato i paesi più poveri, come dimostrano gli studi più recenti. Un confronto tra benefìci e costi, in particolare per quanto riguarda il crollo della capacità di investimento pubblico nella sanità e nell’istruzione dovuto al brusco calo delle entrate fiscali, suggerisce che il saldo è negativo.
Politicamente, il libero scambio è pericoloso. Mette a rischio la democrazia e la libertà di scegliere le proprie istituzioni sociali ed economiche. Dato che favorisce l’indebolimento delle strutture statali, incoraggia l’ascesa del comunitarismo e di fanatismi transfrontalieri, come il jihadismo. Lungi dall’essere una promessa di pace, l’internazionalismo economico ci conduce in realtà alla guerra.
Dal punto di vista morale, il libero scambio è indifendibile. Non ha altri orizzonti che la riduzione di qualsiasi aspetto della vita sociale a merce. Impone come valore morale l’oscenità sociale della nuova “classe agiata” globale[18].
Se Keynes aveva chiaramente visto gli ultimi due punti, possiamo ora aggiungere il primo.
Il futuro è quindi nel protezionismo. Quest’ultimo prima si imporrà come mezzo per evitare il dumping sociale ed ecologico di alcuni paesi. Prenderà allora la forma di una politica industriale coerente, in cui si cercherà di stimolare lo sviluppo di settori con un ruolo strategico per un progetto di sviluppo. Questo porterà a ridefinire una politica economica globale che potrebbe includere la regolamentazione dei flussi di capitale, al fine di rimpadronirci degli strumenti di sovranità economica, politica e sociale. Da questo punto di vista, anche se si può pensare che la sua presentazione sia stata maldestra e la sua relazione con una politica a lungo termine assente, la nozione di patriottismo economico avanzata da Dominique de Villepin non è assurda.
Una politica di questo tipo prevede la definizione di un quadro di riferimento. Oggi, considerata la sua eterogeneità economica e sociale, l’Europa dei 28 (ora 27) non può più essere considerata uno spazio coerente a questo scopo. Restano da trovare le forme della politica futura. Sul suo senso generale però restano pochi dubbi.
Pubblicato su Russerope il 20 gennaio 2017. Traduzione di Voci dall’Estero.
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Note
[1] John Maynard Keynes, “National Self-Sufficiency,” The Yale Review, Vol. 22, No. 4 (giugno 1933), pp. 755-769.
[2] Per un’analisi accurata e autorevole delle diverse regolazioni: F. Ackerman, The Shrinking Gains from Trade: A Critical Assessment of Doha Round Projections, Global Development and Environment Institute, Tufts University, WP n° 05-01. Vedi anche “Doha Round and Developing Countries: Will the Doha deal do more harm than good”, RIS Policy Brief, n°22, aprile 2006, New Delhi.
[3] S. Fernandez de Cordoba et D. Vanzetti, “Now What? Searching for a solution to the WTO Industrial Tariffs Negociations”, Coping with Trade Reform, CNUCED, Ginevra, 2005. Tabella 11.
[4] T.H. Moran, Foreign Direct Investment and Development, The New Policy Agenda for Developing Countries and Economics in Transition, Institute for International Economics, Washington D.C., 1998.
[5] C. Oman, Policy Competition for Foreign Direct Investment, OCDE, Centre du Développement, Paris, 2000. Vedi anche, L. Zarsky, “Stuck in the Mud? Nation-States, Globalization and the Environment” in K.P. Gallagher et J. Wierksman (edits.) International Trade and Sustainable development, Earthscan, Londra, 2002, pp. 19-44.
[6] Vedi R. Skidelsky, John Maynard Keynes, Volume Two. The Economist as Saviour, 1920-1937, Macmillan, Londra, 1992.
[7] Si coglie bene la posizione politica e intellettuale di Keynes dalla sua corrispondenza con la sua futura moglie, la ballerina Lydya Lopokova, tra il 1922 e il 1925. Vedi P. Hill e R. Keynes (edits.), Lydia & Maynard – The letters of Lydia Lopokova and John Maynard Keynes, André Deutsch, Londra, 1989.
[8] Vedi T. Veblen, Absentee Ownership and Business Enterprise in Recent Times: The case of America, Allen & Unwin, Londres, 1924. Vedi anche, T. Veblen, The Theory of the Leisure Class, Macmillan, New York, 1899.
[9] Sull’importanza fondamentale dell’“effetto contesto” e dell’“effetto dotazione” nei comportamenti umani, J. Sapir, Quelle économie pour le XXIè Siècle, Odile Jacob, Paris, 2005, cap. 1.
[10] J. Sapir, La Fin de l’Euro-Libéralisme, Le Seuil, Paris, 2006.
[11] R. Skidelksy, John Maynard Keynes, Volume Two, op.cit., p. xv.
[12] Wcislo, Francis W., Tales of Imperial Russia: The Life and Times of Sergei Witte, 1849-1915, New York, 2011, Oxford University Press.
[13] Vedi la sua recente riedizione in francese: F. List, Système national d’économie politique, Gallimard, Parigi, 2000.
[14] P. Krugman, “Is Free Trade Passé”, in Journal of Economic Perspectives, Vol. 1, n°2/1987, pp. 131-144.
[15] D. Vines, “John Maynard Keynes 1937-1946: The Creation of International Macroeconomics”, in Economic Journal, vol. 118, 2003, pp. 338-361.
[16] Voir, G.A. Akerlof e J.L. Yellen, “Can Small Deviations from Rationality Make Significant Difference to Economic Equilibria?” in American Economic Review, vol. 75, n°4/1985, pp. 708-720 e G.A. Akerlof, W.T. Dickens e G.L. Perry, “The Macroeconomics of Low Inflation” in Brookings Papers on Economic Activity, n°1/1996, pp. 1-59.
[17] Sapir J., voir Ch. 8 et Ch. 9 de D. Colle (edit.), D’un protectionnisme l’autre – La fin de la mondialisation?, Coll. Major, Presses Universitaires de France, Parigi, settembre 2009.
[18] Voir A. Wolfe, “Introduction” in T. Veblen, The Theory of the Leisure Class, The Modern Library, New York, 2001 (nuova edizione dell’opera del 1899).