Autore: Federico Maria Ferrara
Traduzione: Elisa Carrettoni dal testo originale in inglese.
IL CONTESTO
Il monitoraggio e il coordinamento delle politiche di bilancio costituiscono materia di contesa all’interno dello scenario politico europeo. Le questioni relative al grado di flessibilità finanziaria da accordare agli Stati membri dell’Unione europea, e in particolare ai Paesi dell’euro, non sono affatto una novità a Bruxelles, tuttavia la crisi dell’Eurozona ne ha accentuato la rilevanza politica.
Le istituzioni europee hanno cercato di vincolare la politica fiscale degli Stati membri dell’UE così da ridurne le pressioni inflazionistiche sull’economia europea stabilendo norme fiscali le cui basi giuridiche derivano dal Patto di stabilità e di crescita (PSC). Tra le diverse disposizioni del PSC la più contestata è Procedura per i Disavanzi Eccessivi (PDE).
La disciplina di bilancio e la sua relativa applicazione risalgono al Trattato di Maastricht del 1992 che ha limitato il deficit di bilancio nazionale al 3% del Prodotto Interno Lordo (PIL) e i livelli relativi al debito pubblico al 60%; tali parametri costituiscono parte dei criteri intesi a favorire la convergenza economica degli Stati membri dell’UE. Nel 1997 gli Stati membri dell’UE hanno convenuto di rafforzare il monitoraggio e il coordinamento delle politiche fiscali ed economiche nazionali così da fare rispettare i limiti di deficit e di debito fissati dal Trattato di Maastricht. Una volta firmato il Patto di crescita e stabilità, la Germania è diventata la forza trainante di tutto l’accordo. Il patto prevedeva pesanti sanzioni (fino allo 0,5% del PIL) per i paesi che non avrebbero rispettato le sue regole preventive o correttive. Ironia della sorte, il primo banco di prova sull’efficacia del PSC è stata la stessa Germania, insieme alla Francia: nel 2003, in un momento di stagnazione economica delle due maggiori economie dell’Eurozona, entrambe hanno violato il tetto del 3% del deficit pubblico del PIL. Nonostante l’iniziale dura presa di posizione del Presidente della Commissione europea Romano Prodi che richiamava al rispetto delle regole, i ministri delle finanze dell’Eurozona prima, e la stessa Commissione poi, hanno sospeso il provvedimento disciplinare nei confronti dei due paesi. Ne è derivata unariforma del PSCnel 2005 per iniziativa franco-tedesca che ha reso più flessibile l’applicazione delle norme del 3% e del 60% in un’ampia gamma di settori e di circostanze (ad esempio, eliminando il PDE in caso di crescita negativa e fissando scadenze più lunghe per le procedure del PDE).
Questa tendenza verso una maggiore flessibilità è stata drasticamente invertita nel 2011. Dopo l’insorgere della crisi dell’Eurozona il Parlamento europeo ha approvato un pacchetto di sei riforme di bilancio, il cosiddetto “six-pack”, destinato a sanzionare i paesi dell’Eurozona che ignorano gli avvertimenti dell’UE conferendo più poteri a Bruxelles nel controllo del debito e consentendo un’attuazione più severa del PSC. Successivamente, il 2 marzo del 2012, il “six-pack” è stato rafforzato da un trattato intergovernativo noto come Fiscal Compact, firmato da 25 Stati membri dell’UE, fatta eccezione per il Regno Unito e la Repubblica Ceca per loro stessa scelta. Tra le altre cose, il trattato ha richiesto agli Stati membri l’inserimento all’interno delle proprie costituzioni di una norma di pareggio di bilancio. Solo di recente vi sono state delle aperture da parte delle istituzioni europee, in particolare con la Comunicazione interpretativa della Commissione del gennaio 2015 volta ad ammorbidire l’atteggiamento nei confronti dei paesi alle prese con la crisi dei rifugiati. Tuttavia, questi sviluppi non hanno messo un freno al conflitto sulla disciplina di bilancio a livello europeo.
LE FRATTURE POLITICHE
In realtà, nessun paese finora è stato sanzionato per aver violato le regole imposte dal PSC. Tuttavia, sin dall’inizio della crisi dell’Eurozona sussiste un alto grado di disaccordo in materia di interpretazione di queste regole. La presa di posizione più dura è stata da parte della Germania e può essere riassunta con le parole del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, da sempre scettico circa l’ammorbidimento dei criteri fiscali: “il Patto di Stabilità e Crescita fornisce una flessibilità sufficiente, non ostacola le riforme strutturali, al contrario, le promuove”. Una posizione simile è stata presa da altri Paesi nord europei, per esempio i Paesi Bassi: il ministro delle Finanze olandese e presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem ha espresso gravi preoccupazioni in merito all’interpretazione delle norme di flessibilità e ha messo in guardia la Commissione europea da applicazioni del PSC “non del tutto oggettive”. Queste posizioni sono state solo in parte controbilanciate da un altro influente policy-maker tedesco, il vicecancelliere Sigmar Gabriel, da sempre più disponibile a concedere ai paesi dell’UE più tempo e maggiore flessibilità per soddisfare gli obiettivi di disavanzo del blocco, a condizione che mantengano il loro impegno nei confronti delle riforme. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha spesso cercato di non assumere una posizione conflittuale in merito, sebbene riluttante a concessioni palesi, convinta piuttosto che “il Patto di stabilità abbia una sua intrinseca flessibilità da utilizzare in modo intelligente. Questa responsabilità spetta alla Commissione, non al singolo Stato membro che decide nei confronti di un altro”.
Contro la rigida posizione dei Paesi nord europei, un’altra coalizione di Stati membri dell’Unione europea ha avanzato richieste di maggiore flessibilità. Negli ultimi due anni i leader socialisti di tutta Europa hanno richiesto meno vincoli di bilancio. Inizialmente a capo di questa coalizione si è posto il Presidente francese François Hollande, che nel 2014 ha chiesto non solo ulteriori dilazioni per raggiungere l’obiettivo, già due volte posticipato, del deficit di bilancio del 3% della produzione nel 2015, ma anche l’istituzione di un vertice straordinario dei leader dell’Eurozona per la stesura di un piano di crescita per l’Europa che sarebbe “andato oltre” i tre anni, ovvero un progetto di investimento da 300 miliardi di euro promesso da Jean-Claude Juncker. Tuttavia, una volta che alla Francia sono stati concessi altri due anni per correggere il deficit di bilancio, le priorità di Hollande si sono riorientate sulla politica interna. L’iniziativa di ammorbidire gli obiettivi di riduzione del debito ha visto la comparsa sulla scena di un nuovo protagonista, l’ex Primo Ministro italiano Matteo Renzi. Di fronte all’intensificarsi della crisi dei rifugiati e con un’opinione pubblica italiana sempre più euroscettica, Matteo Renzi si è recentemente impegnato in una battaglia contro la Commissione per allentare la disciplina di bilancio, sottolineando in particolar modo la sua proposta di eliminare i costi della crisi dei rifugiati dal calcolo del deficit italiano, e opponendosi agli effetti negativi della austerità di bilancio sulla crescita economica. La strategia di Renzi sembra avere finora funzionato, per la prima parte del 2016 la Commissione ha concesso a Roma un più ampio margine di manovra nella revisione delle politiche di bilancio nazionali.
Più complicata è la traiettoria del monitoraggio fiscale di Spagna e Portogallo, entrambe sotto la PDE dal 2009 a causa dei buchi fiscali ricorrenti. Nell’estate del 2016, la Commissione ha minacciato entrambi i paesi con pesanti multe, esercitando per la prima volta i suoi poteri disciplinari nei confronti dei bilanci degli Stati membri. Tuttavia, dopo dispute lunghe e aspre, la Commissione ha effettuato una svolta drastica e ha deciso che la Spagna e il Portogallo, alla luce del “difficile contesto economico, degli sforzi di riforma di entrambi i Paesi e del loro impegno nel rispettare le norme del PSC”, non avrebbero dovuto ricevere un’ammenda per non aver adottato “misure efficaci” per correggere i loro deficit pubblici
La Grecia costituisce un caso a sé poiché la flessibilità di bilancio è molto ridotta, non tanto dal PSC, ma piuttosto dalle condizioni imposte dai creditori internazionali. Tuttavia, vale la pena notare che di fronte ai problemi posti dalla crisi dei profughi, la Germania ha manifestato una certa disponibilità nel concedere alla Greciaun maggiore margine di manovra nella revisione del sistema pensionistico del Paese. Infine, un’ulteriore, oltre che inaspettata, aggiunta alla coalizione pro-flessibilità è stata quella del Primo Ministro ungherese Viktor Orban, che non è nuovo nel sollecitare i funzionari dell’UE ad allentare la pressione fiscale su Budapest.
E ADESSO?
Le ultime concessioni della Commissione nei confronti di Spagna e Portogallo e l’evidente difficoltà per le istituzioni europee di far rispettare la disciplina di bilancio attraverso le sanzioni non hanno messo fine alle controversie relative al monitoraggio fiscale. Il recente scontro tra il governo italiano e la Commissione Europea è un esempio delle tensioni persistenti in tutto il PSC. Il governo italiano ha iniziato ad intensificare la sua retorica anti-Bruxelles dopo aver svelato un bilancio espansionistico del 2017 in vista del referendum costituzionale del Paese che si è tenuto il 4 dicembre; l’espansione fiscale è stata giustificata sulla base dei recenti terremoti e della crisi migratoria. Dopo aver ricevuto una lettera da parte della Commissione europea che chiedeva “chiarimenti” da parte dell’Italia in merito al bilancio del 2017, Matteo Renzi ha minacciato di porre il veto all’opposizione del bilancio EU e ha denunciato la mancanza di solidarietà da parte del resto d’Europa nella gestione della crisi dei rifugiati.
Anche se è poco probabile che le richieste di chiarimento della Commissione possano portare a sanzioni, queste tensioni mostrano la fragilità del meccanismo europeo di monitoraggio fiscale, soprattutto perché non va di pari passo con risposte adeguate alla domanda di crescita e di investimenti. Ciò che in ultima analisi potrebbe avere un ruolo decisivo nella questione è la definizione di nuovi e sostenibili approcci che combinino la riduzione del debito unitamente alla promozione della crescita negli Stati membri dell’UE. Da questo punto di vista, il lancio del Piano di investimenti di Junker, per quanto non risolutivo, potrebbe iniziare a fornire alcune risposte per superare quello che molti considerano essere un compromesso tra austerità e crescita: l’Italia sarebbe il primo paese a trarne beneficio, e questo potrebbe contribuire in modo efficace a diminuire la diffusione della retorica anti-Bruxelles in tutta Europa.