di Pierluigi Fagan
Igor Panarin è un personaggio assai curioso, qui il suo wiki abbastanza completo[1]. Si tratta di un cervellone russo, stante che i russi hanno un tradizione sistemica tutta loro[2], che non origina cioè da quella della teoria dei sistemi di L. von Bertalanffy, è precedente come è precedente la radice da cui nacque lo stesso Bertalanffy che da giovane frequentava il Circolo di Vienna. Questa è un radice che risale all’illuminismo tedesco, a Kant (in parte) e prima ancora a Leibniz e che, come tutte le radici, ha a sua volte radici ancora più antiche ma che lasciamo lì dove sono altrimenti andiamo fuori tema. Poiché la cultura tedesca influì non poco anche su quella russa, ne conseguì la successiva biforcazione tra sistemica russa e sistemica dell’austriaco poi migrato in Canada ed influente sulla cultura americana.
Insomma, Panarin nel 1998 se ne esce con la previsione del crollo dell’impianto economico americano che poi avverrà nel 2008 ed in conseguenza di questo prevede un processo di secessione interno a gli Stati Uniti d’America.
Il cuore della previsione diceva di una frattura tra l’Ovest che sarebbe entrato nel circuito asiatico-pacifico, un Sud che sarebbe entrato nel circuito ispano-centroamericano, un Est che sarebbe entrato nel circuito euro-britannico ed un Nord felicemente annesso al Canada.
Motivo del terremoto, una serie di guerre civili dovute a migrazioni di massa, conflitto tra centro federale e stato locale, declino economico, fallimento delle élite, rottura del “sogno americano” anche in seguito a condizioni economiche sempre meno comode, il tutto in assenza di un profondo senso di americanità, nazione giovane ed incerta essendo multietnica, con debole tradizione, priva di un significativo collante religioso comunitario. Le differenze interne al sistema americano che in periodi di espansione sono state energia creativa, in periodi di contrazione potrebbero diventare delle identità reciprocamente incompatibili e base per l’hobbesiana guerra di tutti contro tutti.
Queste ultime considerazioni sul delicato rapporto tra unità e differenza sociale non sono degli universali. Si riferiscono più precisamente alla tradizione e cultura di antichi popoli che si chiamavano sassoni, angli, juti e frisoni, barbari in pratica, barbari della costa olandese, germanica e danese che presero a sciamare nel V secolo verso l’isola britannica occupandone le coste sud-ovest e da lì si inoltrarono nell’interno dove si impiantarono scacciando i britanni ed i celti[3]. È una lunga storia di cui si sa poco per tre bui secoli (unica fonte e non si sa quanto affidabile Gildas, De Excidio Bitanniae del VI secolo), sino a quando un monaco inglese, Beda il venerabile, non redasse la Historia ecclesiastica gentis Anglorum del forse 730 o giù di lì. Non è poi che Beda, il cui intento di dar lustro alla cristianità anglosassone è ben chiaro, sia da ritenersi fonte limpida, ma assieme all’unica altra fonte antica delle Anglo-Saxon Chronicles (annali compilati dal IX al XII secolo, sempre da monaci) è tutto ciò che abbiamo assieme al De origine et situ germanorum di Tacito e poco altro, per ricostruire la forma culturale originaria degli anglosassoni.
Si dirà «va bene, però è storia di millecinquecento anni fa, cosa c’entra con gli inglesi e pure gli americani di oggi?». Non possiamo qui effonderci nella interessante storia di queste genti sanguinarie e prive di civiltà (da civis-civitas), che detestavano la natura e adoravano l’oro, divisi in clan più che in tribù, ma dalla Magna Charta Libertatum del 1215 al regno Tudor e poi a gli Stuart, sino ad Hobbes, il primo antropologo degli anglosassoni che non parlava dell’uomo in generale ma proprio e specificatamente dei ed ai suoi conterranei al tempo della guerra civile, sino a tutto il successivo che dalla gloriosa rivoluzione va al parlamento delle élite, la rivoluzione industriale, l’impero ed a latere i puritani del Mayflower, contiene chiari segni di questa antica e comune radice culturale. Il “capitalismo” non nel senso ristretto poi dato ad una specifica forma economica ma nel senso di società ordinata dal fatto economico declinato in una specifica forma (cicli di produzione e scambio attivati dall’impiego di capitali, materie, energie ed idee) è il compimento di quella cultura. Genti pugnaci, divise in clan, riottose a stare vicine le une alle altre e quindi idiosincratiche al concetto di società tanto quanto gelose di quello di libertà, da cui la tendenza individualista ben sposata poi con il protestantesimo ma a loro modo abituate a prender decisioni in assemblea comune, determinate a dominare la natura con loro non certo prosperosa madre e quindi a sviluppare scienza e poi tecnica ma anche a produrre e commerciare come unico possibile contratto sociale, da cui ciò che noi impropriamente chiamiamo “capitalismo”[4]. Quando K. Polanyi dirà che questa forma economica è “disembedded” dalla trama sociale intenderà dire che per la prima volta quella forma che è l’economia non è dipendente da quella trama ma la domina, la “ordina”, le fornisce gli input di funzionamento e quindi le dà l’ordine, l’organizzazione.
Del resto se noi mediterranei al capitalismo ci siamo dovuti adattare ma non ci abbiamo mai fatto grandi cose, se avevamo città e un impero quando lì si vagava nella tundra scambiandosi anfore globulari e massacrandosi dopo ampie libagioni di succo di mele fermentato, se siamo cittadini e quindi sociali d’antica stirpe e facevamo ecclesia e loro no, se siamo cattolici o ortodossi e statalisti e loro protestanti e diffidenti verso lo Stato, se abbiamo avuto voluminose leggi scritte e loro una costituzione che sta su un foglietto, se loro hanno le contee e noi i comuni, se noi eravamo agricoltori e loro cacciatori, noi stanziali e loro semi-nomadi, se lo loro hanno il barbecue e noi la tavola conviviale, se noi abbiamo da conquistarci la salvezza e loro hanno la predestinazione di cui cercare il segno da esibire, se a noi non dispiace l’ozio anche perché abbiamo luce e sole e loro si concentrano su i loro compiti con abnegata concentrazione tanto il cielo è coperto e fa pure freddo, è perché, come diceva il buon Braudel, le strutture sociali e culturali che vi sono intrecciate, hanno lunga durata, durata “geografica” in un certo senso. Quindi, l’origine c’entra perché la storia è dipendente dal percorso che è dipendente dalle condizioni iniziali, cioè dall’origine.
La razionale di tutto ciò al fine del nostro discorso che tende continuamente a scivolare per oscuri antefatti, è che le società di origine anglo-sassone, sono socialmente fragili com’è ben noto anche a chi le ha descritte in tempi recenti secondo indicatori contemporanei[5]. Il motivo è che “società” è per loro una ancestrale costrizione che mal sopportano e storicamente hanno prodotto una rete di concetti e giudizi, di credenze e verità condivise, di ideali e prescrizioni comportamentali che vanno da tutt’altra parte, rassegnandosi infine a stare assieme solo per seguire i codici della produzione, scambio e dell’accumulazione egoista, cioè producendo assieme sforzo economico che poi si ripartiscono individualmente per godersi la loro sacra “libertà”. Già quando si massacravano in faide convennero infine ad un sistema diciamo “giuridico” esclusivamente basato sul fatto che una vita umana aveva un prezzo, si veda il guidrigildo longobardo. Non ci si doveva ammazzare, non in base ad imperativi etici o paura della punizione divina ma perché costava troppo. Con questo contratto sociale (solo genti del Nord potevano inventarsi un concetto come il “contratto sociale”, mai ad un mediterraneo che nasce e da sempre è in una società, sarebbe venuto in mente di dover giustificare la socialità con un “contratto”) vanno alla grande fino a che la ricchezza sale, tendono all’homo homini lupus quando la ricchezza scende, perché è solo la ricerca di questa che li tiene “assieme”.
Panarin quindi non ha fatto altro che leggere questa dinamica di sistema per la quale sistemi ordinati da un convenuto orientato ad un interesse ben specifico, problematizzandosi questo, si problematizzano a loro volta, cioè tendono a spaccarsi, ritornando a piccoli frammenti. Così per il referendum scozzese poi perso per un pelo, così per la decisione di rintanarsi nell’isola visto che si va incontro a tempi difficili (Brexit) che potrebbe chiamare un nuovo referendum scozzese ma anche gallese e nord-irlandese, così per analoga decisione di Trump sul ripristino dei confini materiali ed immateriali, così per le tensioni tra i popoli franchi (valloni e fiamminghi), così per questa incredibile serie di piccoli segnali che andiamo a riportare, che dopo quasi venti anni sembrano andare incontro alla coraggiosa profezia di Panarin.
In California si stanno organizzando per la secessione, la Calexit. C’è un movimento indipendentista con tanto di pagina Facebook che ne divulga le attività che punta al referendum nel 2019. E se la secessione californiana è da sinistra (si fa per dire, diciamo “democratica” e progressista, certo irritata da Trump), in Texas se ne parlava già da destra (anche qui). Ma l’autorevole testata americana Politico ne censisce ben cinque, tutte nate all’indomani della Brexit. Si va dal New Hampshire NHexit, il Vermont Vexit di ispirazione non lontana da quella alla base di Sanders (si ricordi che Sanders non è democratico, non ha mai preso la tessera del partito democratico, aveva promesso di prenderla solo se avesse vinto le primarie e viene regolarmente eletto al Senato dal Vermont, da anni, solo come “indipendente”). Le già citate Texit del Texas e la Repubblica di California ed infine pure le Hawaii con la Hawexit e c’è anche chi sostiene che fra un po’ s’aggiungerà la North Carolina, il Montana, l’Alaska, i nativi della Repubblica Lakota che si stanno facendo le ossa nelle lotte contro l’oleodotto Keystone, i vecchi stati del Sud, il progetto sulla Repubblica di Cascadia degli stati nord orientali e molti ma molti altri, alcuni giocosi, altri molto meno (qui e qui). Time ha messo quelli di Cascadia e soprattutto i ribelli intellettuali del Vermont tra le 10 più importanti aspiranti nazioni, assieme agli scozzesi, i baschi, i curdi. Quelli del Vermont addirittura ne fanno una teoria che ha un suo interesse ovvero decomporre tutti i grandi Stati del mondo (Russia e Cina incluse) e tornare alle nazioni-regioni, l’esatto contrario dell’Uno-mondo promosso dalle élite global-finanziarie per certi versi ma per altri una idea di mega-network di città-stato (un “modello post fenicio”) come ipotizzato da non pochi[6] che potrebbe andare incontro all’anarco-capitalismo tipo Murray Rothbard, così come però anche all’anarco-municipalismo di Murray Bookchin a cui si è votato il capo del PKK turco Ocalan e con lui i comunitaristi curdi del Rojava (Kurdistan siriano) che tanto hanno infiammato i cuori di certa sinistra orfana di miti.
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La nostra digressione sulla natura incerta delle società anglosassoni, le previsioni di Panarin e i precoci fermenti secessionisti americani non fanno certo un fatto e forse neanche una previsione, solo una eventuale possibilità. Dobbiamo quindi vedere meglio questa “possibilità” a quali eventi va incontro per capirne le eventuali probabilità.
Gli eventi non sono certo rassicuranti. Gli Stati Uniti d’America vanno incontro, a meno di una conflagrazione bellica mondiale, ad una relativa e forse lenta contrazione di potenza. Si contrae l’intero sistema occidentale di cui sono il centro e poco possono fare per evitare la contrazione europea e giapponese che sono le due più significative del sistema occidentale. Ascende la Cina, l’India ed altri ma soprattutto il “potere” va regionalizzandosi, in un certo senso, diffondendosi. Così per gli aspetti economici attualmente previsti in lunga stagnazione. Non meno problematiche sono le previsioni per quelli finanziari sempre che non accadano rivolgimenti anche più traumatici che già si temono come la relativizzazione del ruolo del dollaro e della istituzioni internazionali figlie di Bretton Woods. Problematico rimane l’iper-volume finanziario con rischi di crack a catena poiché quelle scritture contabili sono dappertutto dai bilanci delle società quotate in borsa (non solo le banche) ai nostri fondi pensione. Continuerà a crescere il volume demografico del mondo ma non per la parte occidentale che diventa sempre più relativa. Si stagliano all’orizzonte gli impatti con le rigidità date dalle retroazioni ambientali e dei limiti delle risorse, tenuto conto che queste sono poi parti in interrelazione nei sistemi di conflitto geopolitico ed in quelli di mercato, mercato che per la parte finanziaria tende poi a produrre feedback accrescitivi che ingigantiscono i già problematici effetti scarsità.
Tutto ciò tende ad accerchiare quella delicata sproporzione che sussiste tra quel meno del 5% di popolazione mondiale ed il poco meno del 25% del prodotto lordo che è il peso che gli USA hanno sul totale-mondo. Accerchiamento che crea pressione, pressione che crea attrito, attrito che disordina una società il cui contratto sociale è “crescere e prosperare”. Niente crescita, niente prosperità, niente redistribuzione, risultato: conflitto. Ed è il conflitto l’insidia maggiore per quella società debole ovvero per quel debole collante che tiene i diversi interessi individuali entro il campo del comune oltre il quale tendono a divergere innescando una possibile decomposizione del corpo di cui sono parti.
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Il nuovo ciclo(ne) Trump potrebbe avere due effetti reciprocamente contrari su questo quadro. Il primo è forse positivo. Già dal suo slogan elettorale, “Make America Great Again”, il magnate sembra aver avuto ben chiaro il fatto che la perdita di potenza non è solo un rischio ma già un fatto. Rimandiamo ad altrove l’analisi a grana più fine di quanto la sua strategia abbia le possibilità che s’intesta[7] ovvero arrestare l’emorragia, stante che il “problema americano” qualsivoglia sia l’ideologia e le competenze con il quale lo si affronta non solo non è facile da risolvere ma non è neanche detto sia possibile risolverlo sul piano pratico. In quella contrazione di potenza, ci sono soglie invisibili oltre le quali l’effetto non è proporzionato alla causa. La rimessa in discussione del ruolo internazionale del dollaro, l’obbligo a rivedere la composizione di voto delle istituzioni internazionali (IMF, WB, WTO, BIS, ecc.) o la nascita di vere e proprie istituzioni alternative (AIIB, SCO, BRICS), la decomposizione europea che faciliterebbe come “divide” l’“impera” degli americani ma che a quel punto potrebbe vedere anche qualche scheggia d’occidente imparentarsi altrove, lo sviluppo di reti regionali che complicherebbero molto la geopolitica americana, sono tutti fatti che potrebbero rendere l’emorragia improvvisamente più grave con effetti interni destabilizzanti. Altresì, Trump è chiamato ad una cura radicale ed ad un radicale riorientamento del sistema americano (interno ed esterno) ma avrà contro l’élite perdente che è comunque molto forte e che come dicono le ultime sugli hacker russi ha intenzione di condizionare permanentemente la sua politica, a fargli pagare un “prezzo” per ogni sua più eterodossa scelta. Altresì dovrà ben ricordarsi che il voto popolare l’ha perso e non di poco (3 milioni di voti) e quindi il fatto che la società è oggettivamente spaccata ed ha scadenze a due anni (elezioni di midterm) e quattro anni (nuovo incarico), cioè molto più ravvicinate di quanto qualsivoglia strategia riesca a produrre in termini di effetti benefici e stabilizzanti. L’effetto negativo potrebbe esser innescato proprio dai tentativi di Trump di forzare le tappe o le contrarietà provenienti dal contraddittorio pluralismo di quella società.
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Nulla di quanto detto porta ad una possibile conclusione significativa. L’impossibile arte della previsione è di sua natura votata al fallimento. Inoltre, per quanto attiene gli eventuali e fantapolitici processi di secessione qui siamo in prospettive per i prossimi venti anni, non stiamo parlando di domattina. Di base, a parte Panarin che ci è servito da spunto, è un fatto che le società dei popoli anglosassoni vengono da secoli vincenti e non vanno verso secoli altrettanto vincenti. È un fatto meno solido ma fortemente indiziario, che la loro natura e cultura non ha lo stare assieme come suo codice fondante. Altresì, è evidente che il loro contratto sociale – soldi, crescita & sogni – è basato su un punto che verrà messo a dura prova dagli eventi futuri, forse non blood, sweat & tears ma qualcosa che rischia di andarci pericolosamente vicino. Qualcosa nella società americana ha già cominciato a muoversi e non solo col secessionismo ma anche con le periodiche rivolte dei neri, la mobilitazione dei nativi, la nuova destra, la possibile ripresa del conflitto sui diritti civili, addirittura il ripensamento sull’internet “total open” ed altro.
Vedremo se fiumi di dollari ed investimenti, basse tasse e tassi alti la acquieteranno. Time ha eletto Trump “2016, Person of the Year” mettendo in copertina un “Divided States of America” volendo segnare appunto quanto l’America sia divisa: tra evangelici e post-genderisti, tra globalisti e protezionisti, tra costa e interno, tra città e campagna, tra etnie, tra classi, tra popolo ed élite, industria e finanza, petrolieri ed ecologisti, tra ideologie e credenze, sogni ed aspettative. A Trump, quindi, l’onere di ripristinare l’unità del sogno americano ed una sua qual certa perseguibilità. Altrimenti, saluteremo forse la venuta al mondo della Repubblica del Vermont e con lei, di un mondo sempre più inaspettato, in cui l’impero forse cambierà indirizzo ed a seguire tutta la nostra – sempre critica – attenzione. Non è infatti affatto garantito che la perdita della pur tanto criticata “nazione indispensabile” sia la nascita di un mondo migliore. Certe strutture sono più longeve dei loro interpreti.
Pubblicato sul blog dell’autore il 20 dicembre 2016.
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Note
[1] Panarin, tra le altre cose, è un euroasiatista che voleva mandare sotto processo Gorbaciov per tradimento della patria. Per Panarin, la decomposizione potrebbe essere violenta o pacifica rispettivamente sui diversi modelli ex-Jugoslavia, ex-Cecoslovacchia.
[2] Se ne parlò nell’ambito di questo studio sulle tradizione di pensiero in cui ambientare la filosofia di Putin: http://www.sinistrainrete.info/filosofia/5856-pierluigi-fagan-la-filosofia-di-putin.html . Il paragrafo è il penultimo, “I cosmisti ed altri”, prima della conclusioni.
[3] Invero alcuni se ne andarono, in Galles, in Cornovaglia, in Bretagna e soprattutto Irlanda, ma i più rimasero. Gli anglosassoni che erano cattivissimi ma non tantissimi divennero l’élite da cui origina l’aristocrazia terriera inglese. Tutta l’aristocrazia europea è di origine barbara e quindi terriera perché per i semi-nomadi la terra fu ciò che li trasformò portandoli al concetto di potere stanziale, cioè territoriale. In Inghilterra, questa partizione terriera, prese le forme poi delle contee. Sulle radici sociopatiche dell’ideologia liberale che ha forti radici anglosassoni scrivemmo qui.
[4] L’aver usato come unità metodologica unica la classe ha portato Marx a non leggere il fatto che il capitalismo è un sistema dei popoli del Nord. I popoli del Nord poi hanno dominato il mondo (si vedano i nessi tra capitalismo ed imperialismo da Hobson a Lenin) e il capitalismo è diventato una Internazionale delle borghesie. A questa Internazionale della borghesia egli volle opporre una Internazionale del proletariato ma oggi molti si domandano se l’antidoto a questa vocazione globalista non sia invece lo Stato. Chissà se sulla lettura del sistema che ne diede Marx influì il fatto che egli stesso fosse dei popoli del Nord. Di Marx, abbiamo anche una acuta descrizione dei germani in “Forme economiche pre-capitalistiche” che fa parte dei Grundrisse.
[5] R. Wilkinson, K. Pickett, La misura dell’anima, Feltrinelli, Milano, 2009. Il fatto che il duo anglosassone in questione come anche certo comunitarismo (Taylor, Sandel, MacIntyre) abbia ampie radici anglosassoni, che ci siano sociologi come Sennett, così come il fatto che a gli albori della storia che porterà al capitalismo ottocentesco vi fossero fermenti democratici, che il pensiero anarchico origini inaspettatamente da un inglese (Godwin), così come il movimento cooperativo (Owen), dice come la storia culturale sia complessa ed intrecciata. Non è questo il luogo ma si potrebbe derivare una radice della democrazia proprio da quello stesso individualismo clanico delle origini, ad esempio seguendo l’antica forma di democrazia vichinga ma ne parleremo un’altra volta. Del resto le famose enclosures inglese vennero fatte sul precedente bene comune che in inglese è il longevo concetto di common-wealth.
[6] Tra cui B.R. Barber, Saskia Sassen e da ultimo il geopolitico Parag Khanna di cui il recente: Connectography, Fazi editore, Roma, 2016
[7] Ne abbiamo cominciato a parlare qui.