di Wolfgang Münchau
La tragedia del 2016 è stata la cronica incapacità di distinguere tra ciò che è desiderabile e ciò che è probabile. Le pie illusioni stanno diventando una minaccia per la sopravvivenza del liberalismo stesso.
Questa tendenza è particolarmente evidente nella discussione che riguarda il futuro dell’Italia nell’eurozona. Coloro che tendono all’ autocompiacimento dicono che l’Italia è sempre brava a cavarsela in qualche modo, che l’establishment troverà il modo di aggiustare il sistema elettorale al fine di prevenire la vittoria di un partito estremista. In ogni caso la costituzione italiana non consente un referendum sull’uscita dall’euro. Dunque questa eventualità non può accadere.
Ma davvero? Io non credo. Iniziamo con la divergenza nella performance economica tra Italia e Germania. Un metro di misura sono gli squilibri nel TARGET2, il sistema di pagamenti dell’eurozona. Alla fine di novembre il livello di squilibrio ha raggiunto il punto più elevato dalla crisi dell’eurozona del 2012. Il surplus della Germania ammontava a 754 miliardi di euro, per contro l’Italia era in deficit per 359 miliardi di euro. Una parte dello squilibrio è legata al programma di quantitative easing della Banca centrale europea, e dunque è innocua. Ma il grosso dello squilibrio è dovuto a ciò che potrebbe essere descritto come una silenziosa corsa agli sportelli.
L’insostenibilità non implica necessariamente un’uscita. In teoria è possibile che la politica prevalga anche in maniera permanente sulle necessità economiche. Oppure è possibile che l’insostenibile venga ad un certo punto reso sostenibile. Affinché ciò avvenga, deve verificarsi almeno una di cinque condizioni.
La prima è che l’Italia e la Germania possano convergere. A tale scopo l’Italia dovrebbe intraprendere delle riforme economiche per riordinare il sistema giudiziario e la pubblica amministrazione, tagliare le tasse e investire in tecnologie che aumentino la produttività. La Germania dal canto suo dovrebbe impegnarsi in un maggiore deficit fiscale. Seconda opzione, i paesi dell’Europa del nord dovrebbero accettare di effettuare ampi trasferimenti fiscali verso il sud. Terzo, la UE potrebbe creare un’autorità politica federale che abbia il potere di raccogliere tasse e trasferire risorse dai redditi più alti verso quelli più bassi. Quarto, la BCE potrebbe trovare un modo per rinnovare all’infinito il debito italiano sia privato che pubblico. Quinto, il governo italiano potrebbe continuare a sostenere l’appartenenza all’eurozona all’infinito.
Anche una sola di queste cinque condizioni potrebbe essere sufficiente affinché l’Italia resti membro della zona euro. Il problema è che ciascuna di queste prese singolarmente è estremamente improbabile. Non riuscirei a pensarne una sesta.
Le riforme economiche di Matteo Renzi sono state insignificanti, a parte una piccola riforma del lavoro. L’ex primo ministro italiano ha scelto di concentrarsi invece sulle riforme politiche, e ha perso in un referendum in cui il “no” ha prevalso per il 60 percento. Dopo il suo fallimento non è in vista alcun altro governo riformista.
La scelta di Paolo Gentiloni come sostituto di Matteo Renzi non è destinata a cambiare questo stato di cose. Il suo governo, dopotutto, ha un mandato molto limitato. D’altra parte non riesco nemmeno a immaginare che la Germania salvi l’eurozona – né prima né dopo le elezioni politiche del prossimo anno. La costituzione del paese impone un bilancio in pareggio. Nessun altro paese dell’Europa del nord è disponibile ad accettare ampi trasferimenti fiscali, figurarsi una unione politica.
E che dire della BCE? La scorsa settimana ha esteso il quantitative easing a tutto il 2017. Il programma ha aiutato l’Italia, ma non è sufficiente per rinnovare il debito del paese all’infinito, specialmente a causa dell’esiguità dei programmi per affrontare l’ampio debito pubblico totale.
Ed eccoci dunque giunti alla politica italiana. Dei tre grandi partiti, solo il centrosinistra del Partito Democratico (PD), il partito di Renzi, è pro-euro. Teoricamente c’è la possibilità che il PD si riprenda e vinca le prossime elezioni. Non sono certo che ciò avvenga ma sono sicuro che il PD non resterà comunque per sempre al potere.
Un giorno l’Italia sarà guidata da un partito favorevole all’uscita dall’euro. Quando questo avverrà, l’uscita dall’euro diventerà una profezia che si autoavvera. Ci sarà una corsa agli sportelli in Italia e una svendita dei titoli pubblici.
Il destino dell’Italia nell’eurozona e la possibilità di una presidenza di Marine Le Pen in Francia sono due grosse minacce all’esistenza dell’eurozona e della UE. Se l’Italia vuole restare nell’euro, deve mandare alla Germania e agli altri paesi del nord dei segnali molto chiari sul fatto che l’eurozona è su un sentiero di autodistruzione a meno che non si cambino i parametri.
Il prossimo primo ministro italiano avrà il compito di spiegare al prossimo cancelliere tedesco, presumibilmente alla stessa Angela Merkel, che la scelta davanti alla quale si trova non è tra unione politica o no, ma tra unione politica e uscita dell’Italia dall’euro.
La seconda opzione implicherebbe il più grande default della storia. Lo stesso sistema bancario tedesco rischierebbe di crollare, e la più grande economia europea perderebbe la competitività così duramente accumulata nel corso degli ultimi 15 anni.
Il fatto che una serie di primi ministri italiani, uno dopo l’altro, abbiano evitato questo necessario confronto e abbiano pensato che restare fuori dai radar rappresentasse una valida strategia è stato un fallimento storico.
Pubblicato sul Financial Times il 13 dicembre 2016. Traduzione di Voci dall’Estero rivista da Thomas Fazi.