di Carlo Clericetti
Il miglior commento al risultato del referendum potrebbe farlo un certo Alessandro Manzoni, con i primi versi del coro dell’Adelchi: «Dagli atri muscosi… un volgo disperso repente si desta». Uno degli aspetti più significativi è stato infatti quello della partecipazione – il 65,5% dei cittadini – che ha raggiunto livelli che in un referendum non si vedevano da anni e ha superato di quasi otto punti quella delle elezioni europee del 2014, quando il PD di Renzi raggiunse l’inatteso risultato del 40,8%. Più o meno la percentuale degli attuali “sì”, ma con 5 milioni di votanti in meno. Se si considera che il referendum è finito a 13,4 milioni per il “sì” e 19,4 per il “no”, quei 5 milioni fanno quasi tutta la differenza.
E dunque si può dire che la vittoria del NO è la rivincita degli schifati, gli schifati dai partiti che non andavano a votare non perché non avessero più voglia di partecipare alla politica, ma perché non avevano più una “casa”. Esaminiamo una tabella che mostra il voto per partito di appartenenza.
Come si vede, chi si dichiara vicino ad un partito ha seguito in misura molto elevata l’indicazione di voto del suo partito. Il PD arriva ultimo sotto questo aspetto, visto che la sinistra interna votava “no”, ma di poco, e i “ribelli” corrispondono più o meno all’attuale peso di quella componente. Ma c’è l’ultima riga, quella “altri elettori”, che è interessante. Purtroppo la tabella non ci dice quanto valga in numeri assoluti, ma ci sentiamo di fare un’ipotesi: che quegli “altri” siano (oltre alle frattaglie dei partitini non inclusi nell’elenco) proprio i cinque milioni che nel 2014 non avevano votato. Cinque milioni in cui ci sono i delusi dalla destra, che probabilmente in maggioranza hanno votato “sì”; ma in cui sono assai più numerosi – oltre due terzi – i delusi dalla sinistra, che si sono rifatti vivi per votare “no”.
I due terzi di cinque milioni sono 3,3 milioni. È il bacino elettorale potenziale di un partito-della-sinistra-che-non-c’è, il terreno di caccia per Sinistra italiana (SI), che finora non ha dimostrato di riuscire ad attrarli, almeno per la maggior parte.
Che conclusioni si possono trarre, se queste ipotesi sono corrette? La prima è una conferma di ciò che era largamente noto: gli attuali partiti hanno perso credito nei confronti di un numero rilevante di elettori, più quelli orientati a sinistra che a destra. Chi invece continua a votarli – magari turandosi il naso – segue poi in larghissima maggioranza le indicazioni del partito di riferimento, anche quando non brillano per coerenza (questa riforma era quasi completamente coincidente con quanto concordato fra Renzi e Berlusconi nel famoso “patto del Nazareno”, e il “no” della destra era dunque poco giustificabile). Terza considerazione: gli elettori orientati a sinistra valgono circa il 10% di chi stavolta è andato a votare. Non molto e neanche pochissimo: all’incirca la consistenza delle tedesca Linke, il partito nato da una scissione a sinistra della SPD. Con il 10% (ammesso e non concesso che il nuovo partito Sinistra italiana riesca ad appropriarsene) non si può aspirare a guidare il paese, ma ad essere una componente importante di una coalizione sì. Il partito centrista (nel senso che è tuttora centrale nello schieramento politico), cioè il PD, avrebbe a disposizione i “due forni” di andreottiana memoria: potrebbe costituire una maggioranza di governo sia con la destra che con la sinistra, ed è chiaro che nei due casi il programma di governo non potrebbe essere lo stesso.
Naturalmente stiamo facendo i conti senza l’oste, ossia senza sapere con quale legge elettorale si andrà a votare. Se sarà una legge maggioritaria questo discorso cade, o almeno può prendere altri aspetti a seconda dell’ingegneria istituzionale che risulterà vincente. Ma siccome ad oggi su questo c’è il buio, inutile continuare ad arzigogolare.
Resta da rilevare la reazione quasi nulla dei mercati, ad ulteriore smentita di chi aveva paventato catastrofi in caso di vittoria del “no”. Ma se nei prossimi giorni ci saranno turbolenze, saranno più probabilmente provocate non dalle vicende italiane, ma da una nuova uscita del ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schäuble. Che è tornato a lanciare ultimatum alla Grecia: «Faccia le riforme o esca dall’euro». Il meno che si possa dire del ministro tedesco è che è un irresponsabile: la crisi del 2011, impropriamente definita “crisi dei debiti pubblici”, fu provocate proprio dalla scommessa dei mercati sulla possibilità che l’euro si dissolvesse, incoraggiata dall’atteggiamento tedesco. Non c’è niente da fare: la Germania non impara dalla storia.
Pubblicato su Repubblica il 5 dicembre 2016.