di Gustavo Piga
Ero al primo anno di Economia alla Sapienza. Arrivavo presto per tenere i posti. Finii per ascoltare, studente di I anno, le seconde ore di Fausto Vicarelli, docente del II anno. Cominciai ad innamorarmi dell’economia grazie a un docente con cui non sostenni mai un esame. Due ricordi: le sue lavagnate di appunti, chiarissime; e poi è incredibile ma credo di ricordare ancora il timbro della sua voce, con una sua musica, convinta, schietta, pulita. 20 anni dopo divenni direttore, per due anni, del Laboratorio Vicarelli all’Università di Macerata grazie al sostegno di Mauro Marconi: come dice Mauro, lasciai un deficit di cassa, ma ci impegnammo tanto a costruire dibattito. Il 26 novembre la Sapienza ha voluto onorarne il ricordo con un Convegno pieno di interventi scientifici di grande levatura (Paolo Paesani tra questi ma anche Tancioni e Cedrini) e di interventi a braccio appassionati, commossi, divertenti, profondi. Una bella giornata. Ecco il testo del mio intervento.
«Lo stimolo per l’analisi di Keynes fu sempre un qualche momento di crisi capitalistica». Così Vicarelli nell’ultima pagina del suo libro, Keynes. L’instabilità del capitalismo.
Quale momento migliore dunque, per ritrovarci qui! E di ricordarlo. Nel bel mezzo di una gravissima crisi economica.
Senonché una crisi capitalistica, nell’accezione che vi dava Vicarelli, non è una mera crisi economica. È una crisi che interroga i nostri valori. Che vede all’orizzonte una rivoluzione.
Preciso subito che nel volume di Vicarelli la parola rivoluzione è frequente. Tuttavia nella prima parte del volume – che si occupa dei primi anni di Keynes e della sua opera scientifica – ha un significato molto diverso da quello della seconda, legata agli anni della Teoria generale. Vi è una cesura, che forse riflette l’evoluzione degli interessi e dunque del pensiero di Keynes, forse l’interpretazione di Keynes. Sta di fatto che le ultime pagine abbondano di riferimenti alla questione se quella di Keynes fu o non fu rivoluzione teorica, tema su cui tornerò. Ma nelle prime pagine “rivoluzione” è quel moto, appunto, che minaccia di sconfiggere il capitalismo. Non facile a priori trovare un legame tra quelle due parti della vita di Keynes; deve essere stata una delle sfide principali, vinte, dell’opera di Vicarelli.
Rivoluzione dicevo. Come quella comunista a cui si interessava il primo Keynes, oppure come quella del suo saggio del 1930, Economic Possibilities for our Grandchildren, rinviata di 100 anni, al 2030, dove l’accumulazione di capitale cessa di esistere per lasciare spazio al dare valore «ai fini più che ai mezzi, preferendo il bello all’utile».
Che forme caratterizzano queste rivoluzioni in Keynes secondo Vicarelli? Una forma religiosa. Perché il capitalismo secondo Keynes era «assolutamente irreligioso, senza unione interna, senza troppo spirito pubblico, spesso, fatto di grette congerie», mentre il comunismo a cui guardava con sospetto e simpatia aveva la forza di una religione, la forza «di amalgamare le diverse componenti della società mostrandole un futuro verso cui impegnarsi». Non a caso in Possibilità economiche dice espressamente «ci vedo liberi di tornare ad alcuni dei più certi e sicuri principi religiosi» (sempre nel 2030!). Una mancanza di religione che, forse, costituisce la fonte più potente d’instabilità del capitalismo per come lo descriveva Keynes, così privo di valori.
Dunque l’attuale crisi economica, particolarmente priva di amalgama, può essere classificata come crisi capitalistica. Comunque sia, queste crisi, leggiamo in Vicarelli, secondo Keynes possono essere aggirate pacificamente, qualcuno potrebbe dire con una rivoluzione pacifica, «agendo sulla fragilità delle relazioni sociali, modificando le principali motivazioni morali dietro l’attività economica». Tuttavia Vicarelli sostiene che questa non sarebbe una rivoluzione perché non eliminerebbe il capitalismo ma lo renderebbe più stabile. Ma non ne sono certo: un capitalismo amalgamante forse non può essere più chiamato capitalismo, certamente non quello scuro e gretto del Keynes di Economic Possibilities.
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Ma arriviamo al presente: siamo vicini a una rivoluzione? Non comunista, non anti-capitalista ma amalgamante? Che lavori sulla fragilità delle relazioni sociali, agendo su di esse, mostrando un futuro comune verso cui impegnarsi? E che forma, per la politica economica, deve assumere questa rivoluzione?
Un altro inciso, qui si impone. Non è tanto questione di parlare di rivoluzione operativa, di politica monetaria o fiscale, di IS-LM, ma di rivoluzione istituzionale, riguardo alle istituzioni che ci regolano e che plasmano la nostra vita, morale e sociale, direbbe il Keynes di Vicarelli. Vicarelli lamenta nel libro come vi sia stata, da parte degli studiosi keynesiani, una «sistematica eliminazione di qualsiasi parte del pensiero di Keynes che non fosse possibile rendere in un modello stilizzato del sistema economico, privo di qualsiasi complessità e riferimento socio-istituzionale» che invece Keynes prediligeva («altro che Hicks!», ha sbottato Pierluigi Ciocca nella sua relazione, ribadendo che Keynes fu ben più rivoluzionario di quanto non sia emerso dai suoi esegeti). Ecco, le istituzioni.
Arrivo dunque alla domanda senza risposta, che mi pongo continuamente in questi anni: come avrebbe analizzato Keynes l’istituzione del fiscal compact? Come lo avrebbe analizzato il Keynes di Vicarelli?
Non ci sono risposte, ma posso dirvi cosa sospetto: che gli avrebbe rivolto una lotta senza quartiere. Sono quasi certo che se fosse stato un funzionario di Stato oggi si sarebbe subito dimesso per “avere le mani libere”; come fece il 5 giugno del 1919, informando Lloyd George, premier britannico e membro del consiglio dei quattro alla conferenza di Pace di Parigi che doveva preparare quel trattato che portò alla distruzione della Germania europea ed all’esplosione della follia nazista e a cui Keynes collaborava.
Perché il fiscal compact è agli antipodi del Keynes di Vicarelli. Un’istituzione che congela le aspettative degli operatori, dicendogli che anche se oggi ci sarà flessibilità di bilancio per aiutare chi soffre da domani, da subito, questa dovrà essere più che cancellata. Come ci ricorda l’Ufficio parlamentare di bilancio, che obbliga Renzi a dire che nel 2017 il deficit sarà più alto del previsto ma al contempo che «il quadro per il 2018 e 2019 risente del mantenimento della disposizione di aumento delle aliquote IVA nel 2018 e dalla previsione di un ulteriore aumento di 0,9 punti dell’aliquota base nel 2019. Nell’insieme, il gettito associato ammonta a 19,6 miliardi nel 2018 e 23,3 miliardi nel 2019, corrispondenti rispettivamente al 1,1 e all’1,3 per cento del PIL». 20 miliardi!
E a poco serve dire che ogni anno il fiscal compact viene rinnegato, perché, come ricordava proprio Keynes, lo «stato delle aspettative di lungo periodo dipende non solo da cosa è visto come più probabile ma anche dalla fiducia (confidence) che attribuiamo a queste previsioni». Nessun imprenditore minimamente saggio investirebbe nel clima sociale ed economico creato dal fiscal compact.
Il fiscal compact avrebbe anche fatto il miracolo di mettere a tacere un dibattito teorico sull’assenza di lungo periodo nella Teoria generale, su cui Kregel ha avuto modo ben più di me modo di ragionare con efficacia, perché è l’unico caso in cui aspettative costanti nel tempo coincidono con aspettative date in ogni momento del tempo. Perché con il fiscal compact il presente si ripete uguale a se stesso in ogni periodo, come nel giorno della marmotta, il film Ricomincio da capo, con Bill Murray, condannato a ripetere lo stesso giorno ogni giorno: il breve periodo coincide come in incubo col lungo periodo, quando siamo tutti morti. In uno scenario di stagnazione che vieta la stabilizzazione degli investimenti privati, la ripresa dell’occupazione, la coesione e nutre di fragilità le relazioni sociali, levando amalgama e generando polarizzazione.
Sconfiggerlo, il fiscal compact, a fine 2017, non apponendo la firma richiesta per farlo diventare parte integrante del trattato, sarebbe la vera rivoluzione keynesiana, nel senso propriamente istituzionale e che va al di là di quanto ha oggi sostenuto il governatore Visco, pur encomiabilmente, di «chiudere la distanza» tra risparmio ed investimento. Sarebbe infatti la rivoluzione che non solo modifica la politica economica, ma che rimetterebbe al centro della nostra vita un altro modo di intendere l’economia ed i rapporti tra cittadini, basandoli nuovamente su solidarietà reciproca e unità di intenti; rilanciando l’ottimismo nelle aspettative e creando la gioia di un futuro… incerto, dove ogni giorno le aspettative possono finalmente mutare.
Son ben conscio che una rivoluzione ha bisogno di un popolo. Cominciasse intanto il popolo degli economisti, alleandosi durante il prossimo anno per farla attivamente e concretamente. Perché? Per un semplice motivo: perché, fino a prova contraria, anche noi “abbiamo le mani libere”.
Pubblicato sul blog dell’autore il 26 novembre 2016.