di Sergio Farris
Quando ci si trova nella situazione di dover prendere posizione nei confronti di una notevole modifica della legge fondamentale del proprio paese, quella che ne regola i principi basilari della convivenza civile, cioè la Costituzione, occorre cercare di oltrepassare gli annunci, i quali costituiscono solitamente la sintesi semplificata della comunicazione politica.
Così, come molti altri avranno fatto, ho provato anch’io, in questi mesi, leggendo i giornali e assistendo a numerosi dibattiti, a domandarmi quali siano le ragioni per le quali l’attuale governo ha proceduto a far approvare dal Parlamento un disegno di legge di revisione costituzionale, sul quale, come noto, ci pronunceremo il 4 dicembre.
Due ragioni sono particolarmente interessanti.
1) Si dice che, grazie a questa riforma, finalmente si assicura la stabilità del governo e la velocità dei processi decisionali, e da ciò non possono che discendere benefici per l’intera collettività.
2) Si dice che si tratta di una riforma contro la “casta”, perché si abbattono i privilegi dei politici.
Con riguardo al primo punto, va detto che è proprio questo il vero obiettivo della riforma, premesso che, anche grazie alla legge elettorale cosiddetta “Italicum” entrata in vigore a luglio, la quale riduce la Camera dei deputati ad organo composto dai fedelissimi del partito che ottiene il previsto premio di maggioranza, la sua entrata in vigore determinerebbe una sorta di “governo del premier”. Ma bisogna tuttavia avvertire che questo intento, così come quello di cui al punto 2), è irto di insidie, non immediatamente percepibili (e per questo ancora più foriere di eventi sgradevoli) dal cittadino medio.
Ciò che infatti occorre sapere è che non è vero, come si vuole far credere, che il paese sarà, grazie alla riforma, slegato da intralci che imbrigliano il governo nel decidere, sicché esso potrà occuparsi del nostro benessere. La tesi di coloro che cercano di persuadere a optare per il “sì” è, all’ingrosso, così impostata: il problema è la “casta”, una sorta di Stato parallelo che è composto da vecchi politici e da burocrati dediti in maniera esclusiva ai propri interessi, che sottraggono soldi e risorse ai cittadini e si mettono di traverso rispetto all’azione di un governo (ovviamente quello che ha avanzato il disegno di riforma) il quale, invece, intende lasciare quei soldi e risorse nella nostra disponibilità (sottintendendo che il singolo individuo potrà meglio provvedere, da sé medesimo, ai propri bisogni).
In realtà, dovrebbe anche venirci detto che dietro il mito della governabilità (ottenuta anche grazie a una presunta semplificazione dei meccanismi istituzionali), vi è l’introduzione di una sorta di criterio economicistico/efficientistico nel processo decisionale politico, finalizzato a tradurre in pratica, nelle politiche pubbliche, gli stessi principi di cui si avvale l’interesse privato. Così come non ci dicono che, che con l’inserimento in Costituzione (in nome del criterio della governabilità) di una serie di disposizioni rafforzative dell’esecutivo, si avrà un Parlamento depotenziato (è infatti previsto che la Camera resterà il solo ramo del Parlamento investito del ruolo fiduciario e il Senato sarà formato da membri che vi presenzieranno nei ritagli di tempo) per cui sarà sempre il governo a decidere, ma non in nome degli interessi di cittadini e lavoratori impegnati quotidianamente nel procurarsi la mercede, bensì in nome degli interessi di una “governance” politica ed economica sovranazionale, pubblica e privata (le cui articolazioni, come le grandi banche d’affari, sono, non a caso, tutte schierate a favore del “sì”).
Sarà sempre il governo a decidere, o, quantomeno, ad avere l’ultima parola, sovrapponendo l’esecuzione della volontà espressa da parte della suddetta “governance” alla volontà che dovrebbe (e lo sarà sempre meno) essere radicata negli enti di rappresentanza dei cittadini, ovvero le assemblee parlamentari. La parola del governo sarà risolutiva, ad esempio, su questioni concernenti le cosiddette “grandi opere”, da considerare parte sostanziale della strategia di attrazione degli investimenti internazionali (un’altra parte di questa strategia è il contenimento del costo del lavoro insieme alla messa da parte dei diritti sindacali) e ciò avverrà nonostante eventuali avvisi contrari provenienti dagli enti territoriali interessati e/o dalle comunità locali. Non ci viene neanche detto che, approfittando della disaffezione diffusa verso la politica, la prima parte della Costituzione continuerà, sempre in ossequio alla governabilità, a venire disattesa, con un crescente rischio di menomazione anche formale dei suoi diritti fondamentali, dalla sovranità popolare fino ai diritti sociali, per giungere alla messa in discussione dello stesso fondamento della Repubblica, il lavoro, dal cui riconoscimento irradiano una serie di diritti sociali e politici. Nel progetto costituzionale dei padri fondatori della Repubblica democratica, vi è la sussistenza di un legame fra status di lavoratore e status di cittadino, titolare, questi, di diritti intesi quale partecipazione effettiva (non limitata alla sporadica e sterile partecipazione al rito elettorale) al processo politico di cura della “cosa pubblica”. Ora, se tramite una sorta di marcato decisionismo sul piano interno, purtuttavia subordinato a una altrettanto marcata deferenza sul piano esterno, si antepone l’attrattività degli investimenti internazionali ai diritti dei cittadini nella loro molteplice veste di portatori di interessi sociali e di interessi della comunità di appartenenza, non è solo la seconda parte della Costituzione a essere in discussione, ma anche la prima.
Dato che lo stesso attore proponente la riforma costituzionale, l’attuale governo (che pretende, inoltre, di farla approvare a forza di facili richiami demagogici, come l’insistenza a fare riferimento al capzioso quesito referendario) è quello che, sulla scorta delle esigenze prima menzionate, ha forzatamente rimosso dall’ordinamento essenziali tutele del lavoro, va aggiunto che, in caso di approvazione, ai giovani attende un futuro di precariato perenne e di diritti sacrificati sull’altare del mercato, il tutto in ragione della profittabilità attesa degli investimenti esteri che si pretende di incentivare. Come al solito, ai centri del potere economico e finanziario i benefici, ai cittadini, soprattutto giovani, le briciole.
Poniamo poi mente al fatto che, nell’attuale fase storica di stagnazione globale, di commercio internazionale e di movimenti dei capitali in rallentamento, la tendenza è semmai a sminuire il mito della velocità (ossia la tempestiva e snella assunzione di decisioni prone alla libertà di impresa).
Molti paesi cominciano semmai a riconsiderare la possibilità del passaggio a politiche pubbliche che tornino a concentrarsi sul sostegno alla domanda interna e, dunque, a insistere meno sulla competitività.
Nonostante tutto ciò, il governo, promotore della riforma, insiste sul mito della velocità nell’assunzione delle decisioni, il che è in realtà traducibile nell’abdicazione dalle decisioni da assumere al livello nazionale, per concentrarsi su decisioni a favore di una cieca e fideistica adesione al dogma della libertà di movimento dei capitali nel mercato, cioè in una cieca e fideistica adesione alle cause stesse della crisi che tuttora ci attanaglia.
Votando “sì”, bisogna quindi essere coscienti del fatto che si compie una scelta di adeguamento alle esigenze e ai dettami del potere economico/finanziario internazionale, oggi strutturato nelle modalità sopradescritte, e, nondimeno, si rinuncia persino alla presa di coscienza necessaria per poterlo un domani cambiare.
Da ultimo, sarebbe bene lasciar perdere i facili concioni governativi relativi agli emolumenti e alle poltrone della “casta”: si tratta di espedienti che fungono solamente da distrazione in rapporto alle reali cause delle nostre difficoltà. Gli interessi della casta (chissà perché, poi, prendono parte a questa consorteria tutti fuorché i politici del partito che ha dato impulso alla riforma) sono ben poca cosa in confronto agli interessi ai quali il governo che dovesse risultare dallo sconvolgimento della Costituzione intende aprire ulteriormente le porte. I compensi della “casta” si possono decurtare con l’approvazione di leggi ordinarie. Basta la volontà. La battaglia contro la “casta” va piuttosto condotta su di un altro piano, quello della fattiva applicazione dei principi scolpiti nella prima parte della Carta fondamentale, fra i quali l’equa distribuzione del reddito e i limiti alla proprietà privata e al mercato. Ma per questo occorre un radicale mutamento della visione politica, per orientarsi verso una visione della quale il governo che ha concepito questa riforma non è neanche remoto parente. Lo dimostra ponendo in continuazione l’accento su promesse riduzioni di imposte, a sottintendere il concetto che ciascuno deve essere libero di condurre una competizione soggettiva nel mercato con la quale, in caso di successo, il singolo individuo potrà procurarsi i servizi sociali (privatizzati) dei quali abbisogna. Si tenga in proposito a mente che la competizione nel mercato genera immancabilmente vincitori e vinti.
Se invece, il 4 dicembre si dovesse registrare una prevalenza dei “no”, alla reiezione di questa riforma si dovrà, secondo me, tentare di dare una precisa impronta, da intendere come l’occasione per iniziare un percorso di lunga lena il cui esito sperato dovrà essere la ri-democratizzazione dei procedimenti politico/decisionali, la regolazione della finanza, il ripristino della sicurezza sociale e del lavoro stabile e dignitoso, il ritorno della programmazione e dell’investimento pubblico (è sintomatico in proposito che si sbandieri, dietro giustificazione di ridicoli risparmi, la soppressione del CNEL, stando ciò a evidenziare la rinuncia del settore pubblico all’idea stessa di pianificazione).
Questi sono i problemi del paese, non la riforma della Costituzione. Ed è questa la vera sfida da porre alla “casta”.