di Paolo Gerbaudo
La crisi della globalizzazione neoliberista che si sta manifestando a diverse latitudini, e che è stata dimostrata in maniera eclatante dalla vittoria della campagna per la Brexit nel Regno Unito e dal successo di Donald Trump nelle presidenziali americane, ha risuscitato una delle più antiche e polverose tra tutte le nozioni politiche: l’idea di sovranità.
Di solito intesa come l’autorità dello Stato di governare sul suo territorio, la sovranità è stata a lungo considerata un residuo del passato in un mondo sempre più globale e interconnesso. Ma oggi questo principio viene invocato in maniera quasi ossessiva dall’insieme di nuove formazioni populiste e dai nuovi leader che sono emersi a sinistra e a destra dell’orizzonte politico a seguito della crisi finanziaria del 2008.
La campagna per la Brexit in Gran Bretagna, con la sua richiesta di “riprendere il controllo”, si è incentrata sulla riconquista della sovranità dall’Unione europea, accusata di privare il Regno Unito del controllo sui propri confini. Nella campagna presidenziale americana Donald Trump ha fatto della sovranità il suo leitmotiv. Ha sostenuto che il suo piano sull’immigrazione e la sua proposta di revisione degli accordi commerciali avrebbero garantito «prosperità, sicurezza e sovranità» al paese. In Francia, Marine Le Pen pronuncia la parola “sovranità” ad ogni buona occasione, nel contesto delle sue filippiche contro l’Unione europea, la migrazione e il terrorismo, e ha reso chiaro che questa idea sarà l’architrave della sua campagna per le prossime elezioni presidenziali francesi. In Italia il Movimento 5 Stelle ha spesso fatto appello al principio di sovranità. Uno dei suoi leader, Alessandro di Battista, ha recentemente dichiarato che «la sovranità appartiene al popolo» e che l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro per riacquistare il controllo sulla propria economia.
La questione della sovranità non è stata solo appannaggio delle formazioni di destra e di centro. Richieste di recupero della sovranità sono venute anche da sinistra, un campo in cui questo principio è stato a lungo guardato con grande sospetto, a causa della sua associazione con il nazionalismo. In Spagna, Pablo Iglesias, il leader di Podemos, la nuova formazione populista di sinistra fondata ad inizio 2014, ha spesso descritto se stesso come un “soberanista” e ha adottato un discorso fortemente patriottico, facendo appello all’orgoglio e alla storia nazionali. Pur rifiutando la Brexit, Iglesias ha sostenuto che gli Stati nazionali devono recuperare la loro «capacità sovrana» all’interno della UE. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders ha criticato ferocemente la finanza globale e, in modo simile a Donald Trump, il commercio internazionale. In merito al Partenariato Trans-Pacifico (TPP), un trattato commerciale tra gli Stati Uniti e 11 paesi nell’area pacifica, Sanders ha sostenuto che avrebbe «minato la sovranità degli Stati Uniti».
La rivendicazione progressista dell’idea di sovranità può essere fatta risalire al cosiddetto “movimento delle piazze” del 2011, un’ondata di proteste che comprende la primavera araba, gli indignados spagnoli, gli aganaktismenoi greci e Occupy Wall Street. Nonostante questi movimenti siano stati spesso descritti come “neo-anarchici”, in continuità con la lunga ondata di movimenti anti-autoritari, anarchici ed autonomi post-1968, una delle loro caratteristiche chiave è stata la domanda di carattere tipicamente populista, piuttosto che neo-anarchico, di recupero della sovranità e dell’autorità politica a livello locale e nazionale in opposizione alle élite finanziarie e politiche.
Le risoluzioni delle assemblee popolari di Occupy Wall Street hanno spesso invocato il preambolo «We the People» della Costituzione americana, e hanno chiesto un recupero delle istituzioni dello Stato da parte del popolo e una regolamentazione del sistema bancario per contrastare la speculazione finanziaria e immobiliare. Anche nelle acampadas spagnole e greche, la sovranità è emersa come una questione centrale nelle discussioni su come resistere al potere della finanza e della Banca centrale europea, accusate di frustrare la volontà del popolo.
Questa abbondanza di riferimenti alla sovranità sia alla destra che alla sinistra dello spettro politico suggeriscono come la sovranità sia diventata il significante chiave nel discorso politico contemporaneo: un termine che costituisce un campo di battaglia discorsivo e politico in cui si decideranno le sorti dell’egemonia politica nell’era post-neoliberista, e che determinerà se la biforcazione post-neoliberista prenderà una direzione progressiva o regressiva.
Questo nuovo orizzonte solleva questioni scottanti per la sinistra, che finora è stata tiepida nell’abbracciare la questione della sovranità. L’associazione della sovranità con lo Stato-nazione, con la sua lunga storia di conflitti internazionali e di controlli repressivi sui migranti, hanno portato molti a concludere che questo principio sia inconciliabile con una politica realmente progressista. Tuttavia bisogna notare che la sovranità – e in particolare la sovranità popolare – ha costituito un concetto fondamentale nello sviluppo della sinistra moderna, come si vede nel lavoro di Jean-Jacques Rousseau e nella sua influenza sui giacobini e sulla rivoluzione francese. Può la rivendicazione di sovranità vista nelle proteste del 2011, e nel discorso di Podemos e Bernie Sanders, preannunciare l’emergere di una nuova sinistra post-neoliberista che ritorna a vedere la questione della sovranità come un elemento chiave per costruire il potere popolare e combattere le disuguaglianze estreme e il deficit democratico che attanagliano le nostre società? Quali forme di sovranità possono essere realisticamente recuperate in un mondo interconnesso a livello globale? E fino a che punto è davvero possibile sviluppare in senso progressista l’idea di sovranità?
Riprendere il controllo in un mondo fuori controllo
Il ritorno della questione della sovranità negli dibattiti politici contemporanei rivela che ci troviamo di fronte ad una profonda crisi del neoliberismo, che sta dando nuova linfa alla domanda di controllo democratico sulla politica e sulla società, che erano considerate superate nell’era neoliberista.
La crisi finanziaria del 2008, con il disagio sociale che ha prodotto per milioni di persone, ha messo a nudo molte contraddizioni di fondo che erano visibili solo in parte negli anni ’90 e primi anni 2000, quando il neoliberismo era trionfante. Le ansie che caratterizzano questa fase di transizione si concentrano particolarmente su una serie di flussi – commercio, finanza e persone – che costituiscono il sistema circolatorio dell’economia globale.
Se al culmine dell’era neoliberista, questi flussi – e prima di tutto i flussi finanziari e commerciali – venivano presentati dalla classe dirigente e percepiti dalla maggior parte della popolazione come fenomeni positivi e fonte di ricchezza, in un mondo caratterizzato dalla stagnazione economica, dall’insicurezza e dall’instabilità geopolitica, la globalizzazione e i suoi flussi appaiono a molti più come una fonte di rischio che di opportunità: forze che mettono in ridicolo ogni pretesa di controllo delle istituzioni politiche sul territorio che ricade nella loro giurisdizione.
È da questa percezione di assenza di controllo che scaturisce quel desiderio di “riprendere il controllo” che è la cifra del populismo contemporaneo, come abbiamo visto nello slogan più famoso della Brexit: riprendere il controllo come risposta ad un mondo che appare fuori controllo a causa dell’effetto destabilizzante dei flussi globali che sfuggono al controllo delle istituzioni democratiche.
La percezione di una perdita di controllo territoriale riflette il modo in cui la globalizzazione neoliberista ha scientificamente demolito le diverse forme di autorità e regolazione territoriale, nella speranza di trasformare il pianeta in un “spazio liscio”, facilmente attraversato da flussi di capitali, merci e servizi. La sovranità è stata di fatto il nemico giurato del neoliberismo, come si vede nei frequenti attacchi lanciati contro questo principio nella teoria economica neoclassica e nella filosofia neoconservatrice che ha informato lo sviluppo del neoliberismo. Autori come Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Milton Friedman hanno considerato le istituzioni sovrane come ostacoli agli scambi economici e ai flussi finanziari; interferenze al primato del mercato e alla libertà economica di imprenditori e consumatori. Gli Stati-nazione avrebbero dovuto lasciare spazio ad un mercato globale, l’unico legittimo sovrano secondo la Weltanschauung neoliberista.
Questo progetto ha trovato la sua applicazione concreta nelle politiche neoliberiste di deregolamentazione economica e finanziaria che sono state sviluppate a partire dalla fine del regime di Bretton Woods e dalla crisi petrolifera del 1973, per poi esplodere negli anni ’80 e ’90. Le grandi imprese multinazionali che si sono sviluppate nel secondo dopoguerra hanno costituito presto una minaccia al potere territoriale degli Stati-nazione, che hanno spesso ricattato con la minaccia di trasferire altrove le proprie attività per ottenere normative fiscali e sul lavoro più favorevoli ai loro interessi. La creazione dei paradisi fiscali, che è andata di pari passo con lo sviluppo delle multinazionali, è servita come mezzo per vanificare il controllo sovrano sulla tassazione e sui flussi di capitale. Come descritto da Nicholas Shaxson in Le isole del tesoro, i paradisi fiscali hanno sovvertito il sistema di sovranità territoriale, rivolgendo questo principio contro se stesso e rivendicando sovranità per piccole isole e micro-Stati come il Lichtenstein o San Marino, usati come una sorta di covo dei pirati: territori extraterritoriali in cui nascondere proventi illeciti sottratti alle tesorerie nazionali. Gli espedienti utilizzati negli ultimi anni da aziende digitali come Google, Facebook e Amazon per evadere le tasse non sono che l’ultimo capitolo di questo attacco di lunga data alla sovranità fiscale.
Inoltre, la liberalizzazione commerciale, realizzata attraverso una serie di trattati commerciali globali e la formazione dell’Organizzazione mondiale del commercio, è stata anch’essa finalizzata a indebolire la sovranità degli Stati-nazione, privandoli di qualsiasi capacità di proteggere le loro industrie locali attraverso l’uso delle tariffe e altre barriere commerciali, ed esponendo così i lavoratori ad una corsa al ribasso globale sul salario e sulle condizioni di lavoro.
Dunque, nonostante il sospetto che alberga a sinistra rispetto all’idea di sovranità, è evidente che è stato esattamente il suo svuotamento il fattore che ha consentito gli effetti più nefasti del neoliberismo. È stata la demolizione delle giurisdizioni sovrane attraverso i paradisi fiscali e i trattati di libero commercio che ha favorito l’accumulazione di immense ricchezze da parte dei super-ricchi, a spese della gente comune, portando ad una situazione in cui, come documentato da un famoso rapporto della ONG britannica Oxfam pubblicato nel gennaio 2016, 62 persone controllano il 50% della ricchezza mondiale.
Alla luce di questi effetti nefasti della guerra del neoliberismo contro la sovranità, non dovrebbe sorprendere nessuno che di fronte alla crisi dell’ordine neoliberista, la sovranità venga vista nuovamente come un elemento necessario per costruire un ordine politico e sociale alternativo. Al centro di questa nuova politica della sovranità c’è la domanda di nuove forme di autorità territoriale per controllare i flussi globali: quei flussi che il neoliberismo ha visto come necessariamente virtuosi, e che molti oggi percepiscono più come una minaccia al loro benessere e alla loro sicurezza.
La domanda di sovranità è il punto nodale della politica post-neoliberista e il punto di sovrapposizione tra il populismo di destra e di sinistra, tra la politica di Trump e quella Sanders, tra la visione del Movimento 5 Stelle e quella di Podemos. Tuttavia i nuovi populisti di destra e di sinistra sono in profondo disaccordo rispetto a cosa si intenda esattamente per sovranità, quali siano i flussi globali che costituiscono effettivamente un rischio per la sicurezza e il benessere e che dovrebbero quindi essere controllati. Se l’idea di sovranità è al centro della disputa politica, la battaglia che si gioca intorno a questo concetto ha a che fare in buona parte con il significato che le viene assegnato, e il contenuto politico che ne consegue.
La sovranità popolare contro la sovranità nazionale
Ciò che il discorso della sovranità proposto da formazioni e candidati altrimenti agli antipodi come Trump e Sanders, Brexiters e Podemos hanno in comune è l’idea che per costruire un nuovo ordine sociale sulle macerie della globalizzazione neoliberista sia necessario rivendicare il diritto di comunità politiche definite su base territoriale (che si tratti di comuni, regioni, nazioni o continenti) di gestire la loro vita collettiva in modo relativamente autonomo dalle interferenze esterne; ovvero rivendicare alle comunità un certo grado di indipendenza rispetto alle forze e ai flussi globali che sembrano frustare qualsiasi tentativo di controllo reale da parte delle comunità sul proprio destino. Questa comunanza spiega come mai, nonostante le loro enormi differenze, ci siano dei punti di sovrapposizione tra populisti di destra e di sinistra. Ad esempio Trump e Sanders hanno entrambi proposto forme di protezionismo economico, e di intervento dello Stato nell’economia, attraverso uno stimolo alla costruzione di nuove infrastrutture.
Fatta eccezione per tali elementi di somiglianza, la sinistra e la destra populista sono in profondo disaccordo rispetto a ciò che significa realmente la sovranità, e che tipo di controllo territoriale debba essere ricostruito. Per i populisti xenofobi di destra, la sovranità è prima di tutto la sovranità nazionale, proiettata su un immaginario etnico Blut und Boden (‘sangue e suolo’), spesso definito lungo linee etniche e isolazioniste e mobilitato contro coloro – stranieri e migranti – che sembrano mettere in dubbio l’omogeneità e la sicurezza del popolo. La visione di sovranità che si associa a questa logica politica riecheggia la filosofia politica di Thomas Hobbes, per cui la sovranità si reggeva sulla garanzia di sicurezza e protezione offerta dal sovrano ai suoi sudditi.
Il tipo di flusso globale che questa visione reazionaria della sovranità considera come la minaccia principale è evidentemente la migrazione. La sovranità in questa prospettiva significa innanzitutto la chiusura delle frontiere ai migranti, compresi i profughi in fuga dalla guerra, ma anche l’emarginazione delle minoranze interne indesiderate, e in particolare dei musulmani, sospettati di mettere in pericolo la sicurezza e la coesione sociale. Questa interpretazione xenofoba della sovranità era evidente nel dibattitto sulla Brexit, dove la campagna “Leave” ha vinto sfruttando la paura dei migranti, percepiti e additati come responsabili per il calo dei salari e il peggioramento dei servizi pubblici.
La visione progressiva della sovranità che è al centro della politica populista di sinistra, da Podemos a Bernie Sanders, ha un’accezione molto diversa. Essa rivendica la sovranità come sovranità popolare e non solo nazionale. Inoltre vede la sovranità come mezzo di inclusione – di reintegrazione nello Stato di una cittadinanza che da esso si sente alienata – piuttosto che di esclusione. Questa rinnovata domanda progressista di sovranità è memore degli albori della sinistra moderna, tra la fine del 18esimo secolo e l’inizio del 19esimo secolo. L’idea di sovranità popolare è stata invocata negli scritti di Jean-Jacques Rousseau, in cui era centrale l’idea che il potere doveva passare dalle mani del monarca a quelle del popolo, e ha profondamente influenzato i giacobini e la rivoluzione francese e le insurrezioni popolari del 19esimo secolo. Tuttavia l’idea di sovranità è caduta in discredito presso molti movimenti radicali durante l’era neoliberista. La sovranità è stata vista come un concetto autoritario, estraneo a una politica di emancipazione, come visto nella critica di questo concetto sviluppata da Michael Hardt e Antonio Negri in Impero. Tuttavia la nuova sinistra populista che è sorta dopo il crash finanziario del 2008 ha riscoperto la questione della sovranità, e si è convinta che una vera democrazie è impossibile senza il recupero di forme di autorità territoriale.
Il recupero progressista dell’idea di sovranità, come proposto da fenomeni come Sanders e Podemos, ha come principale nemico le banche, gli imprenditori senza scrupoli ed i politici corrotto al loro soldo, non gli stranieri, i rifugiati e le minoranze etniche. I flussi della finanza e del commercio, piuttosto che i flussi migratori, sono quelli che vengono visti come la principale minaccia al benessere e alla sicurezza delle comunità. In questo contesto la sovranità è concepita come un’arma che può essere usata dal Popolo contro l’Oligarchia, dai Molti contro i Pochi, dall’insieme della cittadinanza contro tutte quelle élite che prevaricano la volontà popolare: l’alta finanza che fa leva sulla mobilità dei capitali in un mondo senza frontiere per demolire ogni pretesa di controllo sull’economia, e i potentati internazionali, come la troika e il Fondo monetario internazionale, che vedono la democrazia come un pericolo per i mercati.
Se leader populisti progressisti come Iglesias e Sanders spesso hanno fatto uso di sentimenti patriottici e hanno visto lo Stato-nazione come lo spazio centrale di mobilitazione contro il sistema neoliberista, la loro visione di sovranità è certamente più multi-scala e inclusiva di quella del populismo di destra e comprende il livello locale, regionale, nazionale e continentale. La sovranità è stata infatti spesso invocata anche a livello locale dalle formazioni “municipaliste” che hanno conquistato i governi locali di Madrid e Barcellona. Le amministrazioni di Manuela Carmena e Ada Colau hanno usato il potere delle giurisdizione locali per sostenere l’economia locale, limitare i processi di gentrificazione e combattere la rapacità delle compagnie della cosiddetta “sharing economy”, come Airbnb e Uber. Bernie Sanders si è invece appellato alla sovranità delle comunità dei nativi americani, in occasione delle proteste contro la costruzione dell’oleodotto Dakota Access Pipeline (DAPL).
È evidente che in un mondo globalizzato e interconnesso come quello in cui viviamo, una vera sovranità popolare, per essere efficace, deve essere esercitata anche a livello sovranazionale. Il caos provocato in Gran Bretagna dalla Brexit, e l’incertezza che ha generato sul futuro economico del paese, dimostrano che non è possibile nell’era contemporanea un semplice ritorno alla scala nazionale, o quantomeno quest’opzione non è possibile per gli Stati-nazione europei, che sono troppo piccoli per poter esercitare un reale controllo su processi economici di scala planetaria. Una politica progressista della sovranità deve trovare il necessario bilanciamento tra il livello nazionale e quello sovranazionale. Questo è il motivo per cui le richieste di democratizzare l’Europa come quelle avanzate dal movimento DIEM25 guidato dall’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis sono così importanti.
Confini porosi
Una visione progressiva della sovranità deve ammettere che lo Stato-nazione non è l’unico spazio di esercizio della sovranità, e che nel mondo contemporaneo la sovranità funziona a diverse scale, tutte con la loro legittimità, e tutte utilizzabili come un mezzo per perseguire un programma politico progressista. Viviamo del resto in un tempo in cui il luogo della sovranità è incerto e la definizione stessa di sovranità è oggetto di uno scontro simbolico. In questi tempi siamo chiamati a ripensare e reinventare la sovranità per adattarla ai contorni mutevoli di territori, diritti e istituzioni. Dobbiamo costruire nuove territorialità, concepite non come uno spazio a chiusura stagna, ma piuttosto come uno spazio delimitato da confini porosi, che possono essere aperti a migranti e rifugiati ed al contempo chiusi ai flussi di capitale speculativi e a forme dannose di commercio globale.
Il futuro ci dirà quale visione di sovranità sarà quella che prevarrà nel panorama post-neoliberista e se saranno i populisti di sinistra o di destra a vincere la battaglia per l’egemonia in questa nuova fase. Al momento è la destra populista ad apparire in chiaro vantaggio. Questo è dovuto da un lato al fatto che la maggioranza delle persone continua ad associare la politica della sovranità con lo Stato-nazione ed il nazionalismo, e in parte a causa delle esitazioni delle forze di sinistra e dei movimenti sociali nel rivendicare il principio di sovranità.
Ciò che è chiaro è che la sinistra non può permettersi il lusso di lasciare il discorso della sovranità alla destra. La domanda di recupero della sovranità scaturisce da un’esperienza reale di sofferenza e di umiliazione scatenata dalla demolizione neoliberista delle forme di protezione offerte un tempo dello Stato-nazione. Per rispondere alla rabbia e al disordine provocato dalla crisi economica, politica e morale del neoliberismo, la sinistra ha urgente bisogno di costruire una visione progressiva della sovranità nella quale il controllo del territorio non significhi l’esclusione degli stranieri e delle minoranze etniche e religiose, ma l’inclusione di diverse comunità a livello locale, nazionale e transnazionale nelle decisioni che le riguardano.