Roma – “Dobbiamo essere esigenti nei confronti di noi stessi e degli altri stati europei perché si tenga in vita l’accordo con la Turchia” anche se “non sarà facile”. A dirlo è stato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, intervenendo alla seconda edizione del Forum Med, un dialogo euromediterraneo di alto livello organizzato dalla Farnesina e dall’Ispi in collaborazione con la Commissione europea.
Al centro del primo dibattito, introdotto dal capo della diplomazia Italiana, il tema della sicurezza nel Mediterraneo. Secondo Gentiloni, gli Stati uniti rimarranno un player importante per garantirla e, alla luce dell’apertura del presidente eletto Donald Trump, “se ci sarà dialogo più fruttuoso con la Russia non saremo certo noi italiani a lamentarci”. Tuttavia, ha precisato, “non possiamo illuderci che il compito di assicurare la pace e la stabilità nella nostra regione potrà essere svolto da uno o due guardiani”.
Il ruolo dovrà essere condiviso con tutti gli attori, dall’Ue ai paesi della sponda Sud del Mediterraneo, ha indicato il ministro sottolineando che bisognerà intervenire lungo due direttrici. La prima è la lotta al terrorismo, e su questo campo “il 2017 potrebbe essere l’anno della sconfitta definitiva di Daesh”, ha sottolineato. L’altra è la questione migratoria.
È su questo secondo terreno che, per il titolare degli Esteri, “dobbiamo essere esigenti nei confronti di noi stessi e degli altri stati europei perché si tenga in vita l’accordo con la Turchia, e non sarà facile, si aiutino i Paesi più sotto pressione nella regione, dal Libano agli altri vicini”, e “si avvii un piano strategico che noi italiani abbiamo chiamato migration compact”.
Boris Johnson, ministro degli Esteri del Regno Unito, ha assicurato che anche “noi britannici capiamo perfettamente che la frontiera della nostra sicurezza è nel Mediterraneo”, e per questo “il nostro impegno è determinatissimo e lo sarà in futuro”. L’ex sindaco di Londra condivide l’idea che si debba intervenire per “affrontare le cause della pressione migratoria”, e ha sottolineato come “ben 25 anni fa Gianni De Michelis”, all’epoca titolare della Farnesina, avesse “proposto ai paesi sviluppati di destinare una percentuale del proprio Pil per lo sviluppo dell’Africa. Che situazione avremmo oggi se avessimo ascoltato De Michelis?” è la domanda retorica del ministro di Theresa May.
Oggi però si sta tentando di rimediare, e anche l’Unione europea sta provando a fare la sua parte. Lo ha ricordato Frans Timmermans, il primo vicepresidente della Commissione Ue, non prima di aver provocato Johnson sulla Brexit. L’olandese ha fatto riferimento ai compact per l’Africa che fanno parte della strategia dell’esecutivo comunitario sull’immigrazione. “Stiamo cercando di ampliare il piano europeo per gli investimenti” e “dobbiamo trovare nel Mediterraneo le partnership per creare le stesse possibilità” offerte dal Piano Juncker. Secondo Timmermans, usare il meccanismo dei fondi di garanzia per stimolare investimenti privati è la chiave per portare sviluppo in Africa. A trarne vantaggio, a suo avviso, sarebbero “le piccole e medie imprese di quei Paesi”, che hanno “grandi potenziali nei settori delle energie rinnovabili e dell’agricoltura”.
Quello energetico è il settore su cui puntare anche secondo Claudio De Scalzi, amministratore delegato di Eni. Nel suo intervento ha dichiarato di vedere “il futuro in modo ottimistico” per lo sviluppo della regione mediterranea “perché ci sono risorse e possibilità per cambiare rotta, creando lavoro e possibilità per persone che, non avendole dove sono nate, si devono spostare”. De Scalzi è convinto che le soluzioni siano “legate allo sviluppo energetico” e che l’Ue debba aiutare a creare “queste opportunità a livello locale”, anche andando “oltre il settore dell’oil&gas e condividendo tecnologie”.
Una necessità, quella della “condivisione dello sviluppo” indicata anche da Mauro Moretti, amministratore di Leonardo Finmeccanica, il quale ha parlato di “localizzazione di impianti industriali e collaborazioni con i centri di ricerca” in Africa e nel Medio Oriente. L’obiettivo, ha spiegato il manager rivolgendosi ai rappresentanti di quei Paesi, è di “stabilire lì gli elementi che servono” per “dare a voi possibilità di avere in mano le chiavi del vostro sviluppo”.
Le ottimistiche prospettive emerse nel corso del dibattito, tuttavia, si sono scontrate con il pragmatismo di Ahmed Aboul Gheit, segretario generale della Lega araba. L’egiziano si è dichiarato d’accordo con gli obiettivi da perseguire, ma ha invitato tutti a fare i conti con la realtà fatta di ostacoli al dialogo tra l’Occidente e il mondo arabo. Il primo tra i quali è costituito, ha denunciato Aboul Gheit, dal fatto che “in Palestina continua la costruzione di insediamenti illegali da parte di Israele e nessuno obietta”. Poi ci sono le interferenze nelle crisi di alcuni stati, Siria e Libia in testa. Il segretario della Lega ritiene un grave errore pensare a una presenza militare occidentale nell’area: “State lontani dalla regione”, ha ammonito, perché il recente passato insegna che “l’interventismo di cui il Regno unito e gli Stati uniti sono stati responsabili ha prodotto solo disastri”. Per avviare un vero dialogo con il mondo arabo, ha concluso, prima “è necessario mettere fine all’occupazione dei territori palestinesi” e “sconfiggere Daesh”.