di Giampiero Gramaglia per Iaionline
È stata una campagna elettorale mediocre e cattiva. Ma il finale è stato molto peggio di tutto quello che s’era visto prima: colpi bassi; accuse personali; la discesa in campo di personaggi decisamente marginali, come il direttore dell’Fbi James Comey e l’uomo in boxer, Anthony Weiner, diventati protagonisti tanto inattesi quanto determinanti.
Dopo il terzo dibattito in diretta televisiva, la partita tra la democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump, era ancora aperta, ma orientata. Invece, la riapertura inopinata dell’inchiesta dell’Fbi, già archiviata, sull’emailgate ha rovesciato l’inerzia dall’avvicinamento al voto a favore del magnate, mentre l’ex first lady fatica a mantenersi a galla.
È un po’ come se l’arbitro si sia messo a fischiare a senso unico, nelle ultime battute d’un match non ancora deciso. Anche la decisione di sabato sull’Arizona, uno degli stati in bilico, va contro Hillary e a favore di Donald: la Corte Suprema degli Stati Uniti ha avallato la legge, voluta dai repubblicani e bloccata da una Corte d’Appello federale, che proibisce il voto anticipato.
Un handicap per i democratici, perché sono soprattutto neri e ispanici a ricorrere al voto anticipato: due ‘constituencies’ pro-Clinton cruciali in uno Stato potenzialmente decisivo.Ottobre di sorprese, nella campagna, non ne ha portate una sola; e la coda di novembre s’è pure rivelata velenosa.
Una settimana frenetica, allarmi, paure, minacce
L’ultima settimana prima dell’ElectionDay, negli Stati Uniti è stata tesa e frenetica. Queste sono divenute elezioni da paranoia: un incubo, tra chi grida ai brogli, chi apre inchieste, chi ne conduce di soppiatto, chi razzia mail e chi le diffonde – gli hacker e Wikileaks. Un clima che favorisce il candidato repubblicano, più incline a gettarla in rissa, sulla rivale democratica, più precisa sui contenuti e a disagio quando si gioca ad alzare i toni. .
L’Amministrazione statunitense si fa megafono del timore di un attacco di hacker massiccio, dalla Russia o da altrove, il giorno del voto, per gettare nel caos la democrazia Usa e mostrarne le fragilità, almeno tecnologiche – quelle sostanziali le ha già evidenziate la campagna. .
L’intelligence mette in guardia dal rischio di un attacco dei terroristi di Al-Qaida – una cellula, o dei lupi solitari – che potrebbero colpire lunedì in Texas, o in Virginia, o a New York.
E l’Fbi, da una settimana protagonista assoluto e schierato della campagna, starebbe indagando su falsi documenti volti a screditare la Clinton nell’ambito della più ampia indagine sui presunte interferenze russe.
Verso il 20 gennaio
Oltre18 mesi di campagna elettorale – il 22 marzo 2015, Ted Cruz, senatore del Texas, repubblicano, annunciava per primo la candidatura alla nomination -, quasi sei mesi di primarie e caucuses da gennaio a giugno, due convention, tre dibattiti presidenziali non condurranno, almeno formalmente, alla parola fine martedì prossimo.
La sera dell’ElectionDay, però, si saprà chi sarà il 45° presidente degli Stati Uniti, salvo strascichi stile Florida 2000 tra George W. Bush e Al Gore: se per la prima volta una donna o per la prima volta una figura che non ha mai ricoperto un incarico pubblico né affrontato un voto popolare.
Seguendo un preciso e complesso rituale costituzionale, le procedure per l’elezione del presidente andranno comunque avanti, dopo l’8 Novembre: il giorno chiave sarà mercoledì 19 dicembre, mentre l’insediamento avverrà venerdì 20 gennaio 2017.
La procedura e i Grandi Elettori
La Costituzione statunitense prevede che le elezioni si svolgano il martedì che segue il primo lunedì di novembre: dunque, quest’anno, l’8. Si vota per il presidente e il vicepresidente e per rinnovare parzialmente il Congresso: tutta la Camera, 435 seggi – oggi, 247 repubblicani e 188 democratici -, e un terzo del Senato, 34 seggi – 24 repubblicani e 10 democratici – su 100 – oggi, 54 repubblicani, 44 democratici e due indipendenti che votano per lo più democratico -, oltre a 12 governatori – sette democratici e cinque repubblicani – su 50.
I mandati dei deputati durano due anni; quelli dei senatori sei: gli uni e gli altri sono rinnovabili senza – ma Trump vorrebbe rivedere questa norma. I mandati dei governatori durano quattro anni e sono rinnovabili una sola volta.
Tradizionalmente, ci sono, inoltre, migliaia di consultazioni statali e locali e decine – o persino centinaia – di referendum statali e locali. Gli elettori, in genere, devono districarsi fra le schede, che siano moderne, elettroniche, o ancora con il vecchio, e contestato, sistema della punzonatura.
Nei singoli Stati e nel Distretto di Colombia, dove sorge Washington, i votanti non eleggono direttamente il presidente, ma un collegio di Grandi Elettori in numero pari, per ogni Stato, alla somma dei senatori, due per ciascuno Stato, e dei deputati, variabili in funzione della popolazione.
Il collegio elettorale si compone di 538 Grandi Elettori. Il numero minimo di Grandi Elettori per uno Stato è tre: Alaska, Delaware, Montana, North e South Dakota, Vermont, Wyoming e Distretto di Columbia. Il numero massimo è 55 (California), davanti a Texas 38 e New York 29. I numeri dei Grandi Elettori Stato per Stato vengono periodicamente adeguati alle variazioni demografiche.
I collegi dei Grandi Elettori si riuniscono Stato per Stato il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre: quest’anno, il 19 dicembre. I Grandi Elettori procedono a votazioni separate per il presidente e il vicepresidente. La norma vuole che, in tutti gli Stati, tranne Maine e Nebraska, tutti i voti dei Grandi Elettori vadano ai candidati che hanno ottenuto più voti popolari in quello Stato. Nel Maine – 4 – e nel Nebraska – 5 -, i voti sono contati nei singoli distretti elettorali.
I risultati delle votazioni del 19 dicembre vengono trasmessi all’Ufficio del Registro federale, dove il Congresso li verifica entro la fine dell’anno.All’inizio di gennaio del 2017, il nuovo Congresso siede in sessione plenaria congiunta e procede al computo ufficiale dei voti elettorali. Il presidente del Senato annuncia l’esito delle elezioni e proclama il presidente eletto, se è stata raggiunta la maggioranza necessaria, cioè 270 Grandi Elettori su 538.
Se così non fosse, toccherà alla Camera eleggere il presidente a maggioranza, votando per delegazioni di Stati, fra i tre candidati che hanno ottenuto più voti, e al Senato eleggere il vicepresidente, scegliendo fra i due candidati che hanno avuto più voti.
Venerdì 20 gennaio, il processo si completa: il presidente e il vice-presidente prestano giuramento nelle mani del presidente della Corte Suprema ed entrano nel pieno delle loro funzioni. Saranno passate più di dieci settimane dall’ElectionDay. E chissà se l’inchiesta dell’Fbi sulle mail si sarà conclusa.
Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.