Non prendiamo partito, qui, a favore o contro il Ceta, l’accordo commerciale dell’Ue con il Canada. Cerchiamo però di capire perché l’Unione europea, la grande, democratica, pluralista, ricca, mercantile Unione europea si è fatta bloccare, simbolicamente, da un piccolo Parlamento di una Regione federata del Belgio che rappresenta meno dello 0,2 per cento dei cittadini dell’Unione e non è neanche nei radar delle quote di esportazione dei Ventotto.
Il negoziato con il Canada è andato avanti circa sette anni. In maniera democratica, con l’impulso dei governi dei Ventotto e guidato dalla Commissione europea, titolare, in base ai trattati firmati da tutti i Ventotto, del potere di stilare accordi commerciali con Paesi terzi. Però i negoziatori non hanno fatto sapere niente a nessuno fino alla fine, hanno negoziato “da soli”, per poi decidere, alla fine, forse su impulso di Germania e Francia, forse no (ma è difficile credere che la Commissione abbia preso una simile decisione da sola) di far esprimere sull’accordo tutti i Parlamenti dell’Unione, che sono molto più di 28. Manca anche un conteggio preciso, secondo il capogruppo liberale al Parlamento europeo Guy Verhofstadt sono 70, secondo calcoli più prudenti sono 40… Il fatto è che il numero cambia a seconda di che cosa si vota, dunque va calcolato ogni volta.
Si decide dunque di farli votare tutti. Scelta democratica, senza dubbio, e senza voler trovare dei retroscena e complotti. Però gli si è offerto un pacchetto chiuso. Nessuna modifica possibile, solo una scelta tra il “sì” e il “no”, con l’evidente sottolineatura che il “no” sarebbe stato il voto sbagliato, e chi l’avesse scelto si sarebbe preso gli strali di tutta l’Unione. E’ toccato al Belgio, alla Vallonia, ma poteva toccare anche ad un Lander tedesco, come si teme possa succedere.
Alla Vallonia è toccato anche per un errore macroscopico (sempre a non voler pensare male, che lo si sia fatto apposta per chissà quale motivo): chi era deputato a farlo non ha evidentemente verificato la Costituzione belga, che prevede un voto “preventivo”, forse unica in Europa, in grado di bloccare anche la firma del Ceta, che avrebbe permesso l’entrata in vigore cosiddetta provvisoria, per solo una parte del trattato, in attesa della sua piena applicazione con il voto che sarebbe arrivato via via dai Parlamenti. E, probabilmente, la parte generale, visti i tempi previsti per i voti nei vari Paesi, sarebbe potuta rimanere in piedi comunque, anche se uno Stato avesse deciso di bocciare l’accordo.
Invece no, la Vallonia ha fermato tutto prima. Ora, crediamo, un accordo è ancora possibile, si può riaprire qualche capitolo e riscriverlo, per non buttare via sette anni di lavoro, ma al momento in cui scriviamo tutto è fermo.
La Vallonia però, e qui entriamo nella serie di errori gravi commessi a Bruxelles, già un anno fa, il 2 ottobre 2015, inviò alla Commissione una lettera per esprimere le sue riserve sull’accordo Ceta. Tranne qualche contatto “che non ha portato praticamente a nulla”, denuncia il presidente della Vallonia Paul Magnette, non è arrivata nessuna risposta per oltre un anno, silenzio totale fino al 4 ottobre di quest’anno, quando giunge a Namur una risposta orale frettolosa e non soddisfacente, ma soprattutto tardiva. Il 14 di questo mese il Parlamento vallone dice dunque “no” al trattato, intercettando la volontà di tante altre comunità in tutta Europa che già si erano espresse contro, pur senza valore legale.
Perché la Commissione non ha in alcun modo coinvolto il Parlamento vallone o altri? Perché un anno fa non ha mandato una bella squadra di suoi esperti a confrontarsi con le riserve dei belgi francofoni (perché poi si sono espressi contro anche la Regione di Bruxelles e l’intera Comunità francofona). Non è detto che avrebbero cambiato la posizione, ma certo avrebbe aiutato molto il dialogo e forse qualcosa di positivo ne poteva uscire. Certamente per il processo democratico, ma anche per la vita del trattato Ceta.
Invece no, la, stimata, maggioranza aveva deciso e per i Parlamenti c’era solo la possibilità di dire “sì”. E si è inflitta poi una serie di umiliazioni certamente non necessarie, come porre scadenze alla Vallonia, prima a venerdì scorso, poi lunedì, ora addirittura “aperta” fino a giovedì sera, sempre rifiutate da Magnette e dal suo Parlamento.
Così come si è fatto per la politica di riallocazione dei migranti richiedenti asilo. A maggioranza nel 2015 si decisero le quote che ogni Paese doveva accogliere. La scelta sembrava giusta, espressione di solidarietà tra Paesi membri e con i profughi, ma fu presa senza coinvolgere direttamente tutti i Paesi in un dialogo preventivo. Non ne fanno mistero i Paesi di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), che hanno sempre protestato per una decisione presa senza averli, sostengono loro, debitamente consultati e coinvolti. Decisione presa a maggioranza, dunque imposta a chi non la condivideva, senza lasciargli la possibilità di negoziare. Il risultato, al di là dei giudizi morali, politici e di qualunque altro tipo, è che la riallocazioni non funzionano, l’obiettivo sperato non lo si è raggiunto, le tensioni tra i governi sono aumentate, la situazione dei migranti non è migliorata.
Forse è il profilo “politico” di cui si è fregiata questa Commissione non funziona? Forse l’idea è buona, addirittura giusta, ma prematura? Forse le mancano le gambe? Certo è che questi due esempi indicano che è stata gestita male, che qualcosa di importante evidentemente non funziona. Anche i principi più giusti hanno bisogno di realismo per realizzarsi, e, forse, proprio il “no” vallone, un “no” democratico, espresso per richiesta stessa della Commissione, può essere un buono spunto di riflessione per ripensare come andare avanti, anche in vista del “processo di Bratislava” per disegnare l’Unione del futuro, che dovrebbe trovare il suo culmine a Roma, nel marzo prossimo.