di Francesco Bogliacino
Dopo quello alla letteratura di García Márquez, la Colombia riceve nuovamente il premio Nobel, questa volta per la pace, assegnato al presidente Juan Manuel Santos. Si tratta dell’ultimo dei colpi di scena dei giorni che hanno seguito il protocollo di firma degli accordi di pace tra il governo e la guerriglia delle FARC, il 26 settembre 2016.
Tuttavia, la situazione è in continua evoluzione, soprattutto dopo il plebiscito del 2 ottobre, dove una maggioranza risicatissima ha rifiutato l’accordo. La refrendación popular era stata fortemente voluta dallo stesso Santos, per tener fede alla sua promessa che l’ultima parola sarebbe stata data ai colombiani. Erano i giorni dell’annuncio dei negoziati; 50 anni di conflitto, la scarsa credibilità delle FARC e il bagno di destra dell’opinione pubblica avevano creato abbastanza scetticismo. Quando ha iniziato a delinearsi il testo – un compromesso timido tra la necessità di riconoscere le cause strutturali del conflitto (il problema rurale e la chiusura dello spazio politico) e la difesa ferrea del modello economico neoliberale – e di conseguenza l’opinione pubblica aveva iniziato a cambiare orientamento, molti avevano cercato di evitare il voto popolare ma il presidente è stato irremovibile. Ne è nato così il plebiscito (non un referendum come erroneamente hanno riportato gli analisti in Italia): un meccanismo che legalmente è vincolante solo per il presidente e che richiede un quorum di partecipazione minimo.
Il processo di avvicinamento alla consultazione è stato caratterizzato dai classici errori di strategia che hanno segnato le due presidenze Santos. Innanzitutto l’agenda del governo ha peccato di ingenuità. Qualche evidenza aneddotica. La Corte costituzionale colombiana aveva dichiarato un anno fa un vizio di incostituzionalità legato al mancato rispetto dei diritti fondamentali della popolazione LGBTI nelle scuole, dando al governo un anno per rimediare al vulnus alla carta. Questo era accaduto a seguito del suicidio di un ragazzino di 16 anni, vittima di bullismo. Apparentemente niente a che vedere con il conflitto armato, ma in Colombia la Costituzione consente a qualsiasi cittadino di chiedere una tutela, qualora consideri che un suo diritto è stato violato. Di fronte al potenziale effetto valanga sul sistema giudiziario – in Colombia il 25% degli studenti delle primarie dichiara di essere stato vittima di minacce o violenza – e al limite della scadenza, il governo ha tirato fuori il tema della revisione dei manuali di convivenza nelle scuole.
Naturalmente, questo ha prestato il fianco ai critici dell’accordo di pace (un testo di 297 pagine che ovviamente è scarsamente conosciuto) e la destra ha iniziato a mentire spudoratamente su presunte ideologie di genere e attacchi alle famiglie come ingredienti del negoziato; in un paese bigotto, certe sciocchezze (si è parlato addirittura di dittatura omosessuale) hanno finito per avere un peso. Stesso discorso per la riforma tributaria. La Colombia ha goduto della bonanza del petrolio come tutti i paesi della regione, approfittandone per mettere in piedi enormi programmi di sussidi focalizzati, secondo la ricetta World Bank, ed evitare così cambiamenti strutturali. Di fronte alla flessione dei prezzi, la necessità di una correzione di bilancio ha imposto una riforma del sistema di tassazione (farraginoso, regressivo e minimo). Anche in questo caso, il governo si è mosso tardi e male, e ha regalato su un piatto d’argento all’opposizione la possibilità di associare l’aumento di imposte al post-conflitto.
Nemmeno si può dire che la campagna per il “sì” abbia brillato per organizzazione. Mentre la destra estrema sollevava il rischio che la Colombia diventasse come il Venezuela (una specie di spauracchio per tutte le stagioni), i difensori dell’accordo vivevano in una specie di bolla di sapone habermasiana cercando di rispondere razionalmente alle varie falsità che circolavano, con l’effetto di avere messo in piedi una campagna decisamente debole. Il resto lo ha fatto la tradizionale disaffezione: la Colombia ha la minore affluenza alle urne nella regione e in questo caso si è arrivati addirittura ad un’astensione del 63%. C’è chi dice che le piogge dell’uragano Matthews abbiano complicato l’affluenza nella regione caraibica, e chi dice che molti abbiano scelto di non votare rassicurati dai sondaggi. Sull’inaffidabilità di questi ultimi, tutto è già stato detto dopo il Brexit.
Alle sei di sera, due ore dopo la chiusura delle urne, il paese si è trovato in una specie di trauma collettivo, quando è stato chiaro che il “no” vinceva per soli sessantamila voti. La geografia del voto è interessante. Tutta la frontiera colombiana – i Caraibi, l’Orinoquía, l’Amazzonia e il Pacifico – le zone più colpite dal conflitto, hanno votato a favore dell’accordo, così come Bogotà, mentre la super-uribista Antioquia, con capitale Medellin, e la cintura andina del centro votano contro. Toribío, Murindó, Acandí, Carmen del Darién, Bojayá, Miraflores, Sácama, Chameza, Tibú, Mesetas, Mapiripán, Apartadó, La Montañita, Tierra Alta, Caloto, Timbiquí sono solo alcuni dei comuni dove la violenza ha mostrato il suo volto più efferato, in molti casi proprio per responsabilità delle FARC, e dove le vittime hanno votato a favore della pace.
Il resto è cronaca delle ultime ore. Si paralizzano tutti i processi in corso, tra cui la concentrazione degli insorti, la ricerca dei desaparecidos, la consegna dei minori reclutati dalle FARC; il presidente mette scadenza 31 ottobre al cessate al fuoco. È evidente, da subito, che il piano B non esiste: non lo prevedeva il governo e sicuramente non ce l’ha la destra di Uribe, che si è lasciata andare in pantomime da teatro dell’assurdo: ad esempio, il suo gruppo non ha partecipato alla riunione del presidente con tutti i partiti, per poi uscire con una proposta irricevibile di rimuovere il tema agrario dagli accordi. Addirittura, in un’intervista al quotidiano la República del 6 ottobre, il responsabile della campagna per il “no” ammette candidamente che il partito ha basato tutta la strategia sulle menzogne, per massimizzare il risultato con i soldi a disposizione. La sera del 5 ottobre, le principali città del paese si sono riempite di studenti, 25.000 nella sola Bogotá, che hanno marciato in silenzio per chiedere la fine del conflitto. È la terza Marcha del Silencio della storia colombiana, la prima datata 1948, convocata dallo storico leader populista Gaitán, e la seconda nel 1989, il primo passo verso la nuova Costituzione.
Al momento non è chiaro quali saranno i prossimi passi. Il voto è vincolante per il presidente, quindi a meno di dimissioni (evento che possiamo escludere), Santos non può ratificare l’accordo. Le parti hanno incluso nella clausola 6.6 dell’accordo il rispetto del meccanismo istituzionale di ratificazione quindi anche da questo punto di vista non ci sono margini. Formalmente l’accordo era stato blindato sotto la Convenzione di Ginevra, e il plebiscito non si applica al Congresso, quindi l’accordo è giuridicamente valido, ma permane come in una specie di limbo. Ignorare un voto popolare sarebbe un errore, come insegna l’esperienza europea, ma in concreto non esiste una opzione giuridica su cui convergano tutti, e questo moltiplica le speculazioni. Solo per fare un esempio, il ministro degli interni ha affermato che a causa dell’uragano si potrebbero tenere nuovamente le votazioni nelle regioni colpite.
È possibile naturalmente che si riaprano i negoziati, ma un accordo di quattro anni è un complicato equilibrio instabile di aggettivi e virgole, quindi potrebbe aprire il vaso di Pandora, soprattutto se l’estrema destra venisse inclusa direttamente nella squadra che sta negoziando. Formalmente, è possibile un’assemblea costituente, come nel precedente della deposizione delle armi da parte della guerriglia dell’M19 nel 1991, e questo permetterebbe una inclusione eventuale dell’ELN (con cui i negoziati non hanno nemmeno preso piede), ma il clima politico di polarizzazione rende abbastanza utopico pensare che possa succedere.
L’alternativa forse più sensata è che le leggi di attuazione non abbiano natura di decreti, ma siano discussi in una sede ampia e accolgano qualche proposta della destra, presumibilmente sul regime di justicia transicional che dovrebbe portare rapidamente alla riappacificazione nazionale e al ristabilimento dei diritti delle vittime.
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 10 ottobre 2016.