Roma – Ammontano a 65 milioni le persone che sono state costrette ad abbandonare la propria abitazione per trovare rifugio altrove. La cifra, relativa al 2015, è indicata nel rapporto ‘Forcibly displaced’, redatto dalla Banca Mondiale e presentato oggi a Roma in un evento organizzato in collaborazione con il Centro studi di politica internazionale (Cespi). Si tratta dell’1% circa della popolazione mondiale, e comprende 24 milioni di profughi che hanno dovuto attraversare i propri confini nazionali, ai quali si sommano i 41 milioni che hanno trovato riparo da guerre, violenze o catastrofi naturali restando comunque nel proprio Paese.
Sono cifre che fanno emergere il fenomeno delle migrazioni forzate come “una questione globale”, ha spiegato Xavier Devictor, curatore dell’elaborato per conto della Banca Mondiale. Un problema che “pone un’importante sfida per lo sviluppo”. La tesi dello studio, infatti, è che la risposta all’attuale crisi legata alle migrazioni forzate non debba interessare solo il piano umanitario, ma anche quello dello sviluppo.
La partita che abbiamo di fronte, ha sottolineato Ewen Macleod, capo del servizio Politiche di sviluppo e valutazione dell’Unhcr a Ginevra, “è come far sì che i rifugiati diventino produttivi” nei Paesi ospiti. Da questo punto di vista, segnala Macleod, molti Stati hanno carenze normative che rendono difficile l’inserimento lavorativo dei rifugiati. “Avere una legislazione che impedisce loro di lavorare”, ha spiegato, “non aiuta neppure i Paesi ospitanti, i quali ne pagano il prezzo in termini di mancata creazione di ricchezza, minori entrate fiscali” e creazione di tensioni sociali.
Usando la razionalità, dunque, le politiche messe in campo dagli Stati dovrebbero prevedere un intervento congiunto degli attori che operano sul piano umanitario insieme con quelli, pubblici e privati, che lavorano per favorire lo sviluppo. Ma questo suggerimento proveniente dagli autori dello studio rimane lettera morta, secondo molti dei partecipanti alla presentazione.
Tra questi, il direttore di Amnesty international Italia Gianni Ruffini, il quale punta il dito contro le “scarsissime risorse” messe a disposizione dagli Stati per il sostegno ai rifugiati, sia sul piano umanitario e che su quello della creazione di opportunità di sviluppo. Una scarsità che, ritiene l’attivista per i diritti umani, non dipende sempre dalla mancanza di fondi da investire. Piuttosto, denuncia, “c’è una chiara volontà di privilegiare soluzioni che puntano a ridurre gli ingressi” e a tenere fuori il problema. In sostanza, accusa Ruffini, invece che un ragionamento razionale, “sono i sentimenti di razzismo e xenofobia” che si sviluppano nelle società – e nei corpi elettorali dei vari Paesi – “a orientare le politiche degli Stati” nei confronti dei profughi. Esattamente la dinamica che sta frenando l’adozione di una politica comune dell’Ue sull’immigrazione.