Bruxelles – Sono circa 1,3 milioni di uomini, donne e bambini e nel 2015 hanno fatto richiesta d’asilo in Europa. Vengono da Paesi in guerra come Siria, prima origine con il 29%, o Afghanistan e l’Iraq e chiedono di poter vivere in Europa, almeno per un po’. Secondo l’Eurostat, quasi la metà dei richiedenti asilo ha intenzione di restare in Europa. Per farlo hanno bisogno di un lavoro, un bene diventato molto prezioso in tempi di grave crisi economica, difficile da trovare per un europeo, quasi impossibile per un richiedente asilo.
Lo spiega il rapporto del think tank Bertelsmann Stiftung sull’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo che ha analizzato 94 programmi destinati a loro in 9 Paesi europei: Austria, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna, Svezia e Gran Bretagna.
Anche nelle virtuose Danimarca e Svezia, a cui si aggiunge la Germania, solo un terzo dei partecipanti ai progetti d’inserimento occupazionale ha trovato lavoro tre anni dopo essere arrivati nel Paese ospitante. Va un po’ meglio in Gran Bretagna, dove tra il 2005 e il 2009, quasi la metà dei rifugiati ha iniziato a lavorare dopo 21 mesi, quasi due anni. Peggiore, invece, è la vita dei rifugiati in Italia e Spagna, dove “la possibilità di trovare lavoro per i richiedenti asilo è molto limitata, considerando anche gli alti livelli di disoccupazione”.
Mentre i paesi scandinavi hanno alle spalle molti anni di esperienza nell’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo, altri Paesi europei stanno affrontando solo di recente il tema del lavoro per i nuovi arrivati.
Nessun Paese si è dimostrato essere in grado di stanziare risorse sufficienti per rispondere alla crescente domanda di corsi di lingua o altri tipi di progetti di integrazione. Molti di questi programmi per richiedenti asilo sono progetti pilota e il numero dei partecipanti è molto basso.
Oltre alle risorse, manca anche un personale qualificato e in nessun paese i governi hanno rafforzato le loro politiche d’integrazione, ma hanno semplicemente ampliato quelli già utilizzati per i migranti.
“Molti di questi paesi hanno risposto alla nuova situazione estendendo i programmi destinati agli immigranti e utilizzandoli per i rifugiati”, ha spiegato Joscha Schwarzwälder, esperto di mercato del lavoro al Bertelsmann Stiftung, “Allo stesso tempo sappiamo che gli immigrati che sono anche profughi, hanno più problemi a trovare lavoro rispetto agli altri immigrati che non lo sono. E questo deve essere preso in considerazione nei programmi di inserimento lavorativo”.
Ad eccezione di Danimarca e Svezia che considerano l’integrazione lavorativa dei rifugiati come un settore di responsabilità pubblica, i rifugiati dipendono sempre di più da progetti gestiti dalle organizzazioni no profit.
Non sempre, inoltre, un rifugiato può lavorare appena arriva in un Paese europeo. In base all’ultimo decreto del 2015, che recepisce l’articolo 22 della Direttiva europa sull’accoglienza, ad esempio in Italia un rifugiato può entrare nel mercato del lavoro solo dopo 2 mesi, prima era 6 mesi, da quando ha presentato la domanda di protezione internazionale. Il richiedente asilo che ha ricevuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria ottiene un permesso di soggiorno di 5 anni che vale anche come permesso di lavoro. Questo significa che i rifugiati devono essere trattativi allo stesso modo degli abitanti originari del paese di arrivo in termini di salario, diritti e condizioni lavorative.
Nonostante le diverse politiche messe in campo, i problemi sono molto simili in tutti i nove Paesi. Il primo problema per tutti i Paesi è la burocrazia, quelli che il rapporto definisce “i numerosi ostacoli amministrati e legali”.
Ad esempio, in molti casi, i richiedenti asilo che non sono ancora stati riconosciuti ufficialmente possono ottenere un lavoro solo se non c’è nessuna persona originaria del Paese che lo ospita che è disposta a farlo.
Chi non ha ancora un lavoro, ha più difficoltà con le norme di soggiorno che stabiliscono che i rifugiati vengono assegnati alle varie comunità in base alla disponibilità abitativa o ai posti disponibili nei corsi d’integrazione e non in base a quello di cui i lavoratori hanno bisogno.
“Un ruolo cruciale hanno i corsi di lingua”, si legge nel report, “e tutti i 9 Paesi d’arrivo esistono corsi di lingua pubblici finanziati pubblicamente e, tranne che in Italia, corsi di formazioni speciali per i meno istruiti”.
Anche i migliori programmi di inserimento lavorativo presenti nei Paesi scandinavi non riescono ad incidere davvero se, ad esempio, i rifugiati sono tenuti sempre in classe per il corso di lingua e non hanno alcun contatto con il mercato del lavoro” scrivono gli esperi nel report, che individuano la soluzione in “programmi flessibili che uniscono corsi di lingua e formazione continua”.
Eppure a mancare non sono solo progetti efficaci, manca la consapevolezza di cosa i rifugiati hanno davvero bisogno, ci sono pochi dati che testimoniano l’impatto della misure già prese, come mancano studi scientifici che analizzino in maniera più approfondita il tema dell’integrazione lavorativa.
Per migliorare le opportunità lavorative a lungo termine per i rifugiati”, ha dichiarato l’esperto di mercato del lavoro del think tank, “i Paesi devono investire di più non solo in integrazione, ma devono fare di più anche nel verificare se gli investimenti fatti siano o meno efficaci”.