Bruxelles – L’Italia non è un Paese per giovani, almeno non nel mondo dell’insegnamento. Il nostro Paese ha il “corpo insegnante più anziano rispetto a tutti i Paesi dell’Ocse”, si legge nel rapporto sull’istruzione dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico pubblicato nei giorni in cui si torna sui banchi di scuola dopo la pausa estiva. Il rapporto descrive una scuola italiana non proprio in ottimo stato di salute con pochi fondi e professori sottopagati, principalmente donne.
In Italia “si registra una delle quote più basse d’insegnanti di sesso maschile. Dai 6 ai 7 insegnanti su 10 sono ultracinquantenni, circa il 65%, mentre 8 insegnanti su 10 sono di sesso femminile”. Anche negli altri Paesi europei dell’Ocse la presenza femminile del corpo docente è alta, 72%, ma diminuisce al crescere del livello dell’istruzione. Nelle università europee le professoresse sono solo il 43%.
Come ogni anno l’Ocse ha presentato i dati sullo stato di salute dell’istruzione nel mondo, in particolare nei 35 Paesi dell’organizzazione e in alcuni altri Paesi partner con il report “Uno sguardo sull’istruzione: indicatori dell’Ocse”.
“In una situazione come questa con pochi investimenti e insegnanti più vecchi la qualità dell’educazione rischia di essere minore di quella necessaria”, ha detto ai nostri microfoni il Segretario Generale dell’Ocse, Angel Gurria, che ha presentato il rapporto a Bruxelles.
Mentre insegnanti vicini alla pensione continuano a lavorare nelle aule della scuola, molti giovani sperano un giorno di poterci entrare. Se la disoccupazione giovanile italiana è ancora intorno al 38,8% (ultimo trimestre 2015), “nel corso degli ultimi 10 anni la proporzione dei giovani 20 – 24enni che non lavorano, che non studiano o che non seguono un percorso di formazione (i cosiddetti Neet) è aumentata di 10 punti percentuali in Italia, un aumento superiore rispetto a qualsiasi altro Paese dell’Ocse”. La percentuale dei Neet va dal 25% dei giovani in Italia, Spagna e Spagna al 10% in Paesi come Germania, Lussemburgo e Olanda.
L’Italia è anche il paese in cui chi va all’università trova meno facilmente lavoro. Il tasso di occupazione dei laureati di età compresa tra i 25 e i 34 anni è il 62%, mentre la media Ocse è l’83%. Oltre a non investire sui giovani, in Italia l’istruzione non è considerato un settore strategico in cui fare investimenti.
Nel 2013, l’Italia ha stanziato il 7% della spesa pubblica complessiva per l’insieme dei cicli d’istruzione, dalle scuole elementari fino all’università. Tale quota è notevolmente inferiore rispetto alla media Ocse (11%) e rappresenta la percentuale più bassa dopo l’Ungheria.
In generale, la spesa pubblica per le istituzioni dell’istruzione in Italia è diminuita del 14% tra il 2008 e il 2013, mentre negli stessi anni per altri servizi pubblici la diminuzione della spesa c’è stata, ma è stata inferiore al 2%. Nel 2013, la spesa totale per l’istruzione è stata pari al 4% del Pil, rispetto alla media Ocse del 5,2%.
Chi paga, dunque, per l’educazione in Italia? Come in molti paesi Ocse è lo Stato che finanzia gli studi con il 96% dei finanziamenti, ossia 5 punti percentuali in più rispetto alla media dell’Ocse. Una percentuale che negli anni sta diminuendo notevolmente, mentre la spesa privata tra il 2008 e il 2013 è aumentata del 21%, rispetto alla media Ocse del 16%.
Tuttavia, la fetta più consistente della spesa privata la pagano le famiglie con le tasse universitarie. In media in Italia gli iscritti ai corsi di laurea triennale e magistrale pubblici ogni anno pagano 1.602 dollari statunitensi e oltre 6 mila per le università private. “Sebbene le tasse d’iscrizione si mantengano a livelli relativamente bassi rispetto a Paesi quali Stati Uniti, Giappone, Corea e Canada”, si legge nel rapporto, “esse sono comunque più elevate in Italia rispetto a più della metà dei Paesi per i quali sono disponibili dati, inclusi diversi Paesi nei quali il primo ciclo universitario è gratuito”.
Un’istruzione eccellente dipende principalmente da due fattori: le risorse economiche a disposizione, ma anche la qualità dell’insegnamento che in Italia è fortemente compromessa dalla presenza di insegnanti ultracinquantenni, che spesso non riescono ad essere al passo con i tempi e che sono anche mal pagati.
Gli stipendi dei docenti italiani sono “relativamente bassi”, spiega l’Ocse, “variano tra il 76% e il 93% della media Ocse”. Inoltre, negli ultimi anni, dal 2010 al 2014, i salari degli insegnanti sono diminuiti del 7% in termini reali sia nella scuola primaria che in quella secondaria. In generale, nei paesi dell’Ocse lo stipendio degli insegnanti dal 2005 al 2014 è sceso del 3 e 4%, raggiungendo il 10% in Gran Bretagna e Portogallo e fino al 30% in Grecia. Solo in 6 Paesi Ocse su 18, dei quali abbiamo dei dati, gli stipendi dei docenti sono uguali o superiori a quelli di altri lavoratori laureati, tra cui il Belgio, la Germania e la Danimarca.
Nel settembre del 2015 i leader di tutto il mondo si sono riuniti a New York stabilendo tre priorità da raggiungere entro il 2030 per uno sviluppo sostenibile. Tra i “Sustainable Development Goals” (Sdg) rientra un’istruzione più inclusiva e giusta. Tra i Paesi che, ad oggi, si stanno avvicinando maggiormente a quest’obiettivo ci sono ai primi posti Australia, Austria, Belgio e Canada. L’Italia si colloca al diciassettesimo posto dopo Israele e prima del Giappone.