di Joseph Stiglitz
L’Europa, la patria dell’illuminismo, il luogo di nascita della scienza moderna, è in crisi. La regione che ha ospitato la rivoluzione industriale, che negli ultimi due secoli ha portato a miglioramenti senza precedenti negli standard di vita della popolazione, sta vivendo un lungo periodo di quasi stagnazione. Nel 2015, il PIL pro capite (al netto dell’inflazione) della zona euro era poco più elevato di quanto non fosse nel 2007. Alcuni paesi sono in depressione da anni.
Quando il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti ha raggiunto il 10%, nel mese di ottobre del 2009, la maggioranza degli americani era dell’opinione che fosse intollerabile. Da allora è sceso a meno del 5%. Eppure anche il tasso di disoccupazione della zona euro ha raggiunto il 10% nel 2009 – ed è rimasto a due cifre da allora. In media, più di un giovane su cinque nel mercato del lavoro è disoccupato, e nei paesi più colpiti dalla crisi quasi un giovane su due in cerca di lavoro non riesce a trovarlo. Dietro questo numeri si celano i sogni infranti e le aspirazioni frustrate di milioni di giovani europei, molti dei quali hanno lavorato e studiato duro. Sono numeri che ci parlano di famiglie divise, man mano che chi può lascia il proprio paese in cerca di lavoro all’estero. E che presagiscono per l’Europa un futuro in cui gli standard di vita e di crescita saranno inferiori che in passato, forse per decenni a venire.
Questi fatti economici hanno a loro volta profonde implicazioni politiche. Le fondamenta dell’Europa postbellica stanno scricchiolando. Partiti di estrema destra e di estrema sinistra e movimenti indipendentisti d’ogni sorta sono in ascesa, soprattutto in Spagna ma anche in Italia. E la Gran Bretagna nel mese di giugno ha votato per lasciare l’Unione europea. Ciò che sembrava inevitabile nell’arco della storia – la formazione degli Stati-nazione – viene ora messo in discussione. Lo stesso vale per la più grande conquista dell’Europa postbellica: la creazione dell’Unione europea.
Mentre esistono molti fattori che contribuiscono ai problemi dell’Europa, ce n’è uno che sovrasta tutti gli altri: la creazione della moneta unica, l’euro. O, più precisamente, la creazione di una moneta unica priva di un insieme di istituzioni che permettesse ad una regione così diversificata come l’Europa di funzionare efficacemente.
La moneta unica è il punto d’arrivo di un processo che ha avuto inizio alla metà del ventesimo secolo, mentre l’Europa emergeva dalla carneficina e dalla distruzione di due guerre mondiali. I leader europei hanno riconosciuto che un futuro più pacifico richiedeva una completa riorganizzazione della politica, dell’economia e anche delle identità nazionali del continente. Nel 1957 questa visione ha fatto un importante passio in avanti con la firma del Trattato di Roma, che ha istituito la Comunità economica europea (CEE), che comprendeva Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania Ovest. Nei decenni successivi, dominati dalla guerra fredda, diversi altri paesi dell’Europa occidentale hanno aderito alla CEE. Passo dopo passo, sono state attenuate restrizioni sul lavoro, sui viaggi e sul commercio tra i paesi della CEE.
Ma è solo con la fine della guerra fredda che il processo di integrazione europea ha realmente cominciato a guadagnare velocità. La caduta del muro di Berlino, nel 1989, ha mostrato che era giunto il momento di rafforzare i legami tra le nazioni europee. Le speranze per un futuro pacifico e prospero erano più alte che mai, sia tra i leader che tra i cittadini. Ciò ha portato alla firma del Trattato di Maastricht, che ha formalmente istituito l’Unione europea nel 1993 ed ha creato gran parte delle sua struttura e delle sue istituzioni economiche, oltre ad aver messo in moto il processo di adozione della moneta unica, l’euro.
I sostenitori dell’euro giustamente sostengono che non era solo un progetto economico che cercava di migliorare gli standard di vita dei cittadini, aumentando l’efficienza dell’allocazione delle risorse, perseguendo i princìpi del vantaggio comparato, accrescendo la concorrenza, sfruttando le economie di scala e rafforzando la stabilità economica. Era anche e soprattutto un progetto politico, finalizzato a migliorare l’integrazione politica dell’Europa, portando le persone ed i paesi più vicini tra loro e garantendo la coesistenza pacifica.
L’euro non è riuscita a realizzare nessuno di questi due obiettivi: prosperità e integrazione politica. Questi obiettivi sono ora più lontani di quanto non lo fossero prima della creazione della zona euro. Invece di pace e armonia, abbiamo una situazione in cui i paesi europei si guardano con rabbia e diffidenza. In cui tornano a rivivere vecchi stereotipi (come quello dei meridionali pigri e inaffidabili) e in cui viene rievocato il comportamento della Germania nelle guerre mondiali.
La zona euro è nata storta. La struttura – le norme, i regolamenti e le istituzioni che la governano – è la causa dello scarso rendimento della regione, incluse le sue molteplici crisi. La diversità dell’Europa era la sua forza. Ma far funzionare una moneta unica in una regione con enormi disparità economiche e politiche non è facile. Una moneta unica comporta un tasso di cambio fisso tra i paesi, e un unico tasso di interesse. Anche se questi sono impostati in modo da riflettere le condizioni della maggior parte dei paesi membri, data la diversità economica del continente sono necessarie istituzioni che possano aiutare quelle nazioni per le quali la politica comune non è adatta. L’Europa non è riuscita a creare queste istituzioni.
Peggio ancora, la struttura della zona euro si fonda su una serie di idee fallaci su ciò che è richiesto per il successo economico: per esempio, il fatto che la banca centrale deve concentrarsi unicamente sull’inflazione, a differenza della Federal Reserve negli Stati Uniti, che ha tra i suoi obiettivi anche la crescita e l’occupazione. Non solo la zona euro non si è attrezzata degli strumenti necessari per accomodare le diversità tra paesi; ma la sua struttura – le sue regole ed i suoi regolamenti – non è progettata per promuovere la crescita, l’occupazione e la stabilità.
Perché delle statiste e degli statisti ben intenzionati, nel tentativo di forgiare un’Europa più forte e più unita, hanno creato qualcosa che ha avuto l’effetto opposto? I fondatori dell’euro erano guidati da un insieme di idee e di nozioni su come funziona l’economia che andavano di moda all’epoca, ma che erano semplicemente sbagliate. Avevano fiducia nei mercati, ma ignoravano i limiti dei mercati e ciò che è richiesto per farli funzionare. La fede incrollabile nei mercati è etichettata a volte come fondamentalismo di mercato, a volte come neoliberismo. I fondamentalisti del mercato credevano, per esempio, che se solo i governi avessero garantito un’inflazione bassa e stabile, i mercati avrebbero assicurato crescita e prosperità per tutti. Mentre il fondamentalismo di mercato è stato screditato a livello mondiale, soprattutto a seguito della crisi finanziaria globale del 2008, queste credenze continuano sopravvivere e a prosperare nella potenza dominante della zona euro, la Germania. Queste credenze sono così radicate, così immuni ai fatti, che giustamente vengono considerate un’ideologia. Idee simili, promosse dall’FMI e dalla Banca Mondiale in tutto il mondo, hanno fatto perdere un quarto di secolo all’Africa e un decennio all’America Latina, e hanno condotto a una transizione dal comunismo all’economia di mercato nell’ex Unione Sovietica e nell’Europa orientale che è stata a dir poco deludente.
La Germania, tuttavia, si presenta come un’economia di successo e si considera un modello da seguire. La sua economia è cresciuta del 6,8% dal 2007, ma a un tasso medio di crescita solo dello 0,8% annuo, un numero che, in circostanze normali, sarebbe considerato vicino al fallimento. (A titolo di confronto, il tasso di crescita degli Stati Uniti nello stesso periodo è stato in media dell’1,2%). È anche interessante notare che gli sviluppi in Germania prima della crisi, nei primi anni 2000 – quando il paese ha adottato una serie di riforme che hanno aggressivamente tagliato la rete di sicurezza sociale – sono avvenuti a spese dei lavoratori comuni, specialmente quelli in fondo alla scala sociale. Mentre i salari reali ristagnavano (e in alcuni casi diminuivano), il divario tra i salari più bassi e quelli medi è aumentato del 9% in meno di un decennio. E nei primi anni del nuovo secolo sono aumentate anche la povertà e le disuguaglianze. La Germania può considerarsi un “successo” solo a confronto con gli altri paesi della zona euro.
Forse è naturale che i leader della zona euro vogliano dare la colpa alla vittima – ai paesi in recessione o in depressione o alle prese con le conseguenze di un referendum – per questo stato di cose. Non vogliono dare la colpa se stessi e alle grandi istituzioni che hanno contribuito a creare, e che ora guidano. Ma incolpando la vittima non si risolve il problema dell’euro, ed è in larga misura sleale.
Non avrebbe dovuto sorprendere nessuno il fatto che la risposta dell’Europa al referendum nel Regno Unito sia stata dominata dagli stessi toni che hanno salutato il rifiuto dei greci del pacchetto di salvataggio, nel giugno del 2015. Herman Van Rompuy, un ex presidente del Consiglio europeo, ha espresso un sentimento diffuso quando ha detto che la decisione di David Cameron di tenere un referendum «è stata la peggiore decisione politica degli ultimi decenni». Così dicendo, ha rivelato una profonda antipatia verso la democrazia. È comprensibile: nella maggior parte dei casi in cui gli elettori sono stati consultati direttamente, hanno respinto l’euro, l’Unione europea e la Costituzione europea. Inoltre, i sondaggi al momento della Brexit hanno dimostrato che la maggioranza dei cittadini in molti paesi europei (tra cui Grecia, Francia e Spagna) ha una visione negativa della UE.
Le conseguenze economiche e politiche della Brexit dipenderanno molto, ovviamente, dalla risposta dell’Europa. La maggior parte dei commentatori dà per scontato che l’Europa non si taglierà il naso per fare un dispetto al proprio volto. Sembrerebbe essere nell’interesse di tutti lavorare per ottenere il miglior rapporto economico possibile, in linea con le aspirazioni democratiche e con le preoccupazioni dei cittadini su entrambe le sponde della Manica. I benefici del commercio e dell’integrazione economica sono reciproci, e se l’UE prende sul serio le sue idee sui benefici dell’integrazione economica, allora dovrebbe fare tutto per stringere i legami più stretti possibili, a prescindere dalle circostanze. Qualunque tentativo da parte dell’UE di punire il Regno Unito gli si ritorcerebbe contro. Il fatto che i mercati azionari europei e i listini delle banche europee siano calati significativamente dopo il referendum suggerisce che il Brexit è stato un male anche per l’Europa.
Ma Jean-Claude Juncker, l’architetto orgoglioso del regime fiscale pro-evasione del Lussemburgo ed ora capo della Commissione europea, ha adottato una linea dura, il che è comprensibili se si pensa che egli rischia di passare alla storia come uno dei responsabili dello scioglimento dell’UE. La sua linea è che l’Europa deve essere implacabile nella sua punizione, e offrire al Regno Unito poco di più di ciò che le sarebbe garantito in base ai normali accordi globali previsti dall’Organizzazione mondiale del commercio, per timore che altri si affrettino verso l’uscita. Che risposta! Secondo Juncker, l’Europa non deve essere tenuta insieme dai benefici che dovrebbe offrire a chi ne fa parte: la prosperità economica, il senso di solidarietà, l’orgoglio di essere un europeo. No, l’Europa deve essere tenuta insieme dalle minacce e dalla paura di che cosa potrebbe accadere nel caso in cui un paese decidesse di uscire.
L’euro è spesso descritto come un cattivo matrimonio. Un cattivo matrimonio coinvolge due persone che non avrebbero mai dovuto fare un voto presumibilmente indissolubile. L’euro è una cosa un po’ più complicata: si tratta infatti di un matrimonio che coinvolge 19 paesi marcatamente diversi tra loro. I consulenti matrimoniali si dividono in due categorie: i consulenti in vecchio stile cercano di capire come far funzionare il matrimonio, mentre i consulenti moderno iniziano chiedendosi: questo matrimonio merita di essere salvato? I costi di una separazione – sia finanziari che emotivi – potrebbero essere molto elevati. Ma i costi di stare insieme potrebbe essere anche superiori.
Una delle prime lezioni di economia è che il passato è il passato. Uno dovrebbe sempre chiedersi: considerando dove siamo, cosa dovremmo fare? Su entrambi i lati della Manica, la politica dovrebbe dedicarsi alla comprensione dei fattori all’origine degli rabbia; come sia possibile che in una democrazia l’establishment politico abbia potuto fare così poco per rispondere alle preoccupazioni dei cittadini, e cosa può essere fatto ora: come creare all’interno di ciascun paese, e attraverso accordi transfrontalieri, un’Europa nuova, più democratica, che si ponga l’obiettivo di migliorare le condizioni dei suoi cittadini. Questo non può essere fatto con l’ideologia neoliberista che ha prevalso per un terzo di secolo e che ha giocato un ruolo così importante nella costruzione dell’euro. E non sarà fatto se confondiamo i fini con i mezzi: l’euro non è un fine ma un mezzo, che, se ben gestito, può portare prosperità condivisa, ma che, se gestito male, porterà a standard di vita più bassi per molti o forse per la maggioranza dei cittadini.
Mentre ci sono molte ragioni per essere pessimisti, preferire concentrarmi sulle ragioni per essere ottimisti. Sono così tanti i cittadini in Europea che ancora credono nel progetto europeo, anche in quei paesi in cui la disperazione sarebbe giustificata, da farmi dire che c’è ancora speranza: speranza nel fatto che l’UE può essere riformata e lo sarà. Ci sono leader politici in tutta Europa che sono diventati politici perché credono ancora che la politica democratica può portare cambiamenti in grado di generare prosperità condivisa. E in tutta Europa ci sono decine di migliaia di persone, molti dei quali giovani, che hanno sfilato per un’Europa diversa; un’Europa in cui, per esempio, i nuovi accordi commerciali non servano solo gli interessi delle multinazionali, ma anche gli interessi più ampi della collettività.
Ci sono alternative agli accordi attuali che possono creare una vera prosperità condivisa: la sfida è quella di imparare dal passato per creare questa nuova economia e politica del futuro. Il referendum Brexit è stato uno shock. La mia speranza è che lo shock scateni un’onda di cambiamento su entrambe le sponde della Manica che porti a questa nuova, riformata Unione europea.
Pubblicato sul Guardian il 10 agosto 2016. Traduzione di Thomas Fazi in esclusiva per Eunews/Oneuro.