di Pierluigi Fagan
L’epoca in cui siamo capitati (Heidegger avrebbe detto «siamo stati gettati») la definiamo “complessa”. Questa complessità ne è il concetto, come moderno è stato il concetto di quella che sta finendo. L’era della complessità subentra al moderno e termina anche quella lunga incertezza definitoria che è ricorsa all’utilizzo dei “post-qualcosa” per segnare la fine del moderno ma non ancora la nascita di qualcos’altro.
Vorremmo argomentare su tre punti: 1) perché definiamo la nostra, addirittura una “nuova era” e perché la definiamo complessa; 2) che cosa intendiamo per complessità; 3) cosa differenzia il complesso dal moderno e cosa ci indica, sul piano del cambiamento adattivo, questa differenza. I primi due punti si co-implicano e quindi l’argomentazione verrà svolta in un’unica soluzione prima di argomentare sul terzo.
1) Una nuova era? Da tempo è in questione, presso i geologi e da loro alla comunità scientifica in senso più ampio, se definire la nostra era in maniera nuova rispetto alla precedente. L’ipotesi in discussione è sul termine “antropocene”, l’era antropica ovvero l’era in cui non è più e solo la natura a determinare il suo stesso stato e divenire ma la relazione tra questa è l’umano. L’umano ha, per quantità e qualità di impatto delle sue azioni, raggiunto un ruolo perturbativo del naturale tale da co-determinarlo (la natura determina l’uomo che determina la natura). Questo sul piano della natura (geologia), ma anche sul piano dell’uomo (storia) si contano diverse novità. Da tempo, si notano dei sinistri scricchiolii in una serie di istituzioni umane che hanno segnato e fondato l’epoca moderna in Occidente: il sistema detto capitalismo tanto nelle sue forme economiche che politiche (dette “democrazie di mercato”), il tramonto dell’occidental-centrismo, l’infelicità occidentale che subentra ad una lunga stagione di hybris, un ritorno di presenza delle religioni, la degenerazione delle élite, il ricorso ansioso ai criteri di verità tecno-scientifica, la paura ed il senso diffuso di rischio, il disordine, l’occlusione dell’orizzonte detto “futuro” e l’evaporazione del concetto di progresso, l’invecchiamento demografico, lo smarrimento valoriale, il degrado quasi totale del politico. Gli intellettuali, sono necessariamente compresi in questo movimento apparentemente degenerativo e si fa fatica ad aprire anche una sola mano ed a porre su ogni dito contante un pensatore di riferimento, una mente lucida in grado di narrare il presente ed indicare il futuro, chiarificandolo. Il nostro “tempo appreso nel pensiero” sembra trovare a fatica pensanti in grado di apprenderlo (prenderlo assieme, cum-prehendo) e mancando la lucida interpretazione, manca la possibile predizione. Sembra quindi che i tempi siano difficili, da vivere come da comprendere e forse l’una difficoltà è in funzione dell’altra. Questo parziale elenco di crisi e novità avanza il dubbio che noi si sia finiti in un transizione storica, ma da cosa a cosa?
2. La storia e il tempo. In genere, in settanta anni, cambia poco nelle strutture e sovrastrutture umane. Cambia poco perché strutture e sovrastrutture umane sono enti complessi, dotati cioè di molte parti e molte interrelazioni, per cui il movimento interno, che è costante, diventa decisivo e radicale (transizione di fase) solo dopo un tempo necessariamente lungo. Ne fece perno del suo metodo lo storico Fernand Braudel a cui spesso ci riferiamo nei nostri scritti[1], il quale osservò che la storia dei fatti (evenemenziale) è una cronaca interessante ma non decisiva per comprendere il movimento essenziale che ha tempi di lunga durata[2]. Capita ancora oggi di leggere del capitalismo o dello Stato-nazione europeo o del moderno, riferendosi implicitamente al teatro storico del XIX secolo quando tutti e tre i fenomeni, nel consenso di molti studiosi, mostrano la loro origine nel XV e XVI secolo. Certo la loro fenomenologia in quel del XIX secolo è stata esplosiva e molto significativa ma senza una comprensione profonda della loro origine, difficile capirne l’essenza e se non si capisce quale ne sia l’essenza, difficile farne una diagnosi ed una prognosi. Se settanta anni son quindi pochi per leggere i movimenti profondi della geologia storica, la lettura dei nostri ultimi ci mostra comunque qualcosa di molto rilevante: il mondo è incorso in una trasformazione profonda più veloce della capacità dei sistemi umani sovrastrutturali (culture) e strutturali (istituzioni sociali, politiche, economiche) di registrarla. Quando si capita, come ipotizziamo si sia capitati, in una transizione storica in cui i cambiamenti di stato sono sia estesi che intensi, vasti e profondi, in cui lentamente e contraddittoriamente si sovrappongono stati di cose vecchi e nuovi, è normale che tra mondo dei fatti e mondo delle istituzioni umane ci sia disallineamento. E se c’è questo disallineamento tra mondo dei fatti e mondo delle istituzioni umane, viepiù c’è tra entrambi e mondo del pensiero. I tempi portano cambiamenti che facciamo fatica a registrare, che abbiamo difficoltà a comprendere, a cui facciamo fatica ad adattarci. In un mondo molto più semplice, quello che transitò dal medioevo al moderno, furono necessari secoli per riallineare i tre tempi-modi, quello del mondo, quello della sua interpretazione istituzionale e di quella culturale. Tra la fine della monarchia assoluta inglese e quella russa corsero più di due secoli, tra i soprassalti dell’Inquisizione e l’annuncio che Dio era morto più di tre, tra Galileo e la dittatura neopositivista della cultura tecno-scientifica americana quasi quattro, tra l’intensificazione dei commerci mondiali dei beni voluttuari delle élite cittadine alla globalizzazione della produzione e consumo di massa planetario, cinque. Tra l’inizio della fine del medioevo e l’inizio dell’era complessa, sei, cioè sei secoli è la durata del moderno in senso esteso ma molto di questo tempo è servito per diluire la coda del periodo precedente e consentire l’affermazione del nuovo modo con lenta progressione. Questa transizione lunga avvenne in un sistema meno ampio e denso di quello in cui oggi ci troviamo e, soprattutto, beneficiò della possibilità di esternalizzare le contraddizioni. Tale transizione lenta, infatti, riguardò l’Occidente mentre quella attuale riguarda il mondo. Data quindi l’estensione, la densità e la mancanza di un esterno in cui scaricare le contraddizioni del sistema in transizione di fase, quella attuale sarà probabilmente più brusca e caotica.
3. La nuova era si presenta come crisi della vecchia. Ma cosa è successo in questi sessanta anni? La popolazione mondiale è cresciuta da 2,5 a 7,5 miliardi di persone. Se il nostro oggetto di comprensione è il mondo umano, materialisticamente (e col termine s’intende la semplice consistenza fisica di un oggetto osservato), è assai rilevante che l’oggetto abbia triplicato le sue dimensioni ed in così poco tempo. Mai nella storia umana, l’umanità si è triplicata in settanta anni e partendo poi già da una dimensione mai prima raggiunta[3]. Se poi prendiamo gli inizi del XX secolo e il traguardo del 2050 (o forse prima), avremo un salto volumetrico da 1.500 a 10.000 milioni di individui, in un solo secolo e mezzo. In questi settanta anni, gli Stati-nazione sono quadruplicati da circa 50 a poco più di 200, movimento che sembra voler continuare. La grande varietà di popoli, culture, lingue, religioni, modi di vita, ha preso ad interconnettersi alla velocità con cui prende ad arborizzarsi il cervello infantile nei primissimi mesi di vita. Quando aumentano in poco tempo sia la varietà (le parti) che le relazioni tra le parti (le interrelazioni), si ha una inflazione di complessità. I sistemi strutturali, gli Stati, i sistemi economici e finanziari, le reti di comunicazione e trasporto (merci e persone), quindi gli scambi materiali e i sistemi sovrastrutturali, le culture, le visioni del mondo, i paradigmi, le logiche, le idee e le credenze, quindi gli scambi immateriali, hanno tessuto velocemente un sistema nuovo, un sistema molto più complesso che non abbiamo ancora pienamente registrato come fatto compiuto. Globalizzazione e migrazioni sono certo fenomeni tessitori importanti ma questa spinta al crearsi di interconnessioni e dipendenze ha una natura più complessa e dipende, in gran parte, dalla semplice densificazione del pianeta.
Nel qualitativo, l’Occidente, che è stato il sistema guida del moderno, si è trovato in poco tempo (anche se un po’ più ampio che non i settant’anni) dal pesare il 30% circa del mondo umano a poco più del 10%. L’Europa che a inizio secolo scorso era la maggioranza di quel “occidentale” tende a diventare minoranza in favore del mondo anglosassone ed invecchia a ritmi sostenuti deformando le tradizionali piramidi demografiche che nel lungo tempo, molto svasate alla base e corte in altezza, si sono prima allungate e ristrette ed ora quasi invertite visto che si vive sempre di più e si fanno meno figli. Il modo occidentale di stare la mondo, spesso detto “capitalismo” ma più precisamente definibile come sistema sociale ordinato dalle attività economiche[4], è diventato il principale standard planetario. Parallelamente, la potenza dominante il sistema, gli Stati Uniti, subentrata agli inglesi nei sessant’anni che vanno dal 1870 al 1930, preoccupata da questa espansione del mondo non occidentale, preoccupata dal fatto che allargandosi il mondo si diluiva il suo controllo e posizione, introduce il fiat money (Nixon, 1971) per trasferire il controllo del sistema economico dalla produzione e scambio alla banco-finanza, riservandosi del modo tradizionale di produzione e scambio più che altro le punte tecno-scientifiche che coltiva anche in funzione del necessario primato militare. Il NASDAQ apre, appunto, nel 1971 ed internet discende da una rete militare (ARPANET). In seguito, ha condensato un set di disposizioni economiche che hanno dato al sistema economico mondiale le forme a lei gradite per mantenere una posizione di sostanziale controllo. Se la cosiddetta rivoluzione industriale è stata un movimento prodotto dai britannici più come somma di molti atti non intenzionati da un soggetto centrale, la rivoluzione finanziario-digitale è stata invece promossa intenzionalmente per cercare di garantirsi il doppio obiettivo di dare ulteriore sviluppo ad un sistema che andava a ristagnare o quantomeno a frenare bruscamente il suo impeto accrescitivo, mantenendo la leadership assoluta del sistema stesso. La cosiddetta “finanziarizzazione” non è stata quindi un mutamento endogeno dell’acefalo sistema economico che chiamiamo “capitalismo” ma, in accordo con la visione Braudel-Arrighi, un movimento intenzionale guidato dal “contenitore di potere” che ospita il quartier generale del sistema “capitalistico” della nostra fase storica: gli Stati Uniti d’America[v].
Nel politico, l’Occidente ha visto una sempre più pronunciata subordinazione dell’Europa continentale al sistema anglosassone. La guerra mondiale svolta nella prima parte del XX secolo in due puntate per complessivi circa 86 milioni di morti e radicale distruzione materiale, terminava in Europa una lunga era cominciata con la Guerra del Peloponneso, quella della guerra interna al sub-continente più complesso (complice la sua peculiare geografia) dell’intero pianeta. Quel mondo era giunto alla sua impossibilità ma cosa quindi fargli succedere per darsi un ordine ancora ce lo domandiamo rimbalzando tra idealismi sfocati (Stati Uniti d’Europa), pragmatismi elitisti (il sistema euro, la Commissione EU) e il sempre confortante “come si stava bene una volta” (il ritorno allo Stato-nazione). Facendosi viepiù difficili le cose per il sistema occidentale non più materialmente in grado di dominare e subordinare il pianeta con imperi (formali ed informali) e colonie, nei settanta anni si è passati da pseudo-democrazie comunque redistributive e relativamente equilibrate a pseudo-democrazie tendenzialmente oligarchiche con sfumature tecno-tiranniche. Movimento questo che si riflette non solo all’interno dei sistemi politici occidentali ma anche nel modo con cui l’Occidente a guida americana, si atteggia col mondo esteso. Mal si comprende questa degenerazione se non la s’inquadra dentro l’altra contrazione, quella della lenta perdita progressiva di potere e controllo occidentale sul mondo.
Nel culturale, la tecno-scienza che ha sin dall’inizio accompagnato lo sviluppo di questo modo moderno ha raggiunto capacità tali da segnare, ad un certo punto, l’inversione della posizione umana rispetto alla natura, da subordinata a subordinante. Questo punto ha avuto la sua rivelazione con il doppio sganciamento delle bombe atomiche sul Giappone, è stato quello il “segno spaventoso” che ci ha confermato la raggiunta capacità demiurgica del poter manipolare la materia nei suoi costituenti fondamentali. Di questa nuova potente ed inquietante capacità si son poi dati, in sequenza, altri avvisi: la questione ambientale si pone infatti dagli anni ’60, quindi nasce l’ecologia moderna, poi si pongono le questioni delle risorse ai primi anni ’70, poi compare l’inquinamento ed infine si registra il cambiamento climatico. Quindi i geologi si domandano dell’opportunità di definire l’era “antropocene” e poco prima, il filosofo Hans Jonas propone di porre a paradigma delle nostre immagini di mondo il “principio responsabilità” perché se Prometeo è arrivato finalmente al compimento del suo sogno di dominio, sarà anche il caso cominci a domandarsi cosa farci di questo dominio e prenderne più giudiziosa responsabilità.
Sul piano dell’ordinatore, il sistema economico come ordinatore delle entità sociali, mentre la retorica ufficiale celebra i fasti di un’umanità creativa, innovatrice ed audace, tutta intenta a far fiorire cose dagli algoritmi (vecchio vizio occidentale del delirio neoplatonico di processione dall’Idea alla Cosa), in realtà la vera innovazione sia ideativa che produttiva finalizzata alla alimentazione dei cicli di “creazione-distruzione” del modo economico sembra esser giunta ad un periodo di senile sterilità. Certo che vapore ed elettricità non sono stati rimpiazzati da Google ed Apple, il solo pensarlo denota menti rapite dal bisogno di confortarsi applicando lo schema dell’analogia con le pere e le mele, con cose cioè che non sono affatto analoghe in essenza. Di fatto, negli ultimi venticinque anni, l’Occidente ha perso 14 punti percentuali di peso nella composizione del PIL globale, la svolta finanziaria ha moltiplicato la ricchezza dei già ricchi, fuori di questa élite i consumi si sono contratti e questo, oltre alla penetrazione di merci di altri sistemi geo-economici, ha deperito la produzione occidentale e contratto l’occupazione ed i salari. Per sostenere i sistemi nazionali, dato che il sistema economico è entrato in questa spirale contrattiva, si è ricorso al debito ma, fallendo sistematicamente il rilancio, il debito si è solo accumulato entrando in una spirale accrescitiva dovuta agli interessi così dal finire di diventare oltretutto inutile, se non come ulteriore alimentazione della accumulazione finanziaria. L’invocazione testarda e penosa alla “crescita” è diventata una religione del cargo.
Essendo allora oggi in grado di manipolare i costituenti primi della materia, atomi e molecole, si aprono serie di domande su chi crea, cosa e perché, inclusa l’automanipolazione della vita e dell’umano. Questo massimo raggiungimento poietico coincide con il punto minimo di sviluppo dell’autoriflessione etico-morale. Georg Simmel argomentava che «l’oggetto della scienza della natura è ciò che accade, l’oggetto dell’etica è ciò che deve accadere» ma noi ci troviamo nell’inversione per la quale la scienza della natura è alla sua massima potenza di possibilità e non si limita più a comprendere il mondo ma a crearlo sotto dettato di un groviglio di necessità e bisogni i cui unici indicatori sono gli indici di Borsa, sui quali nessuno esercita più il senso di responsabilità, la riflessione meditata sul dover essere. L’idea di governare la transizione di un mondo complesso sempre più denso e chiuso nei suoi limiti oggettivi, con le indicazioni che provengono dal luogo in cui si concentra la massima isteria umana, cioè la Borsa, denota la nostra manifesta inadeguatezza adattiva, un plasticamente allarmante senso di confusione, non comprensione, irresponsabilità.
In sintesi, in settant’anni il mondo umano ha intrapreso un processo di dilatazione quanti-qualitativa impressionante, l’Occidente si è riformulato perdendo la sua millenaria origine euro-continentale, sta perdendo peso e quindi potere sul mondo, ma continua ad ordinarsi secondo istituzioni materiali quali il sistema economico-finanziario e politico moderno e conseguenti istituzioni immateriali, quei sistemi di cedenze, logiche e pensieri che chiamiamo immagini di mondo, forgiate in tempi in cui peso e potere erano ben diversi. L’immagine di mondo si è tecno-scientificizzata perdendo sia la capacità riflessiva, sia la possibilità di discutere i suoi stessi fini. Perdendo capacità riflessiva ed intenzione dei fini ha perso “intelligenza”. L’ordinatore economico ha dato energia e sviluppo fintanto che l’Occidente è stato in grado di dominare quelle vaste porzioni di mondo che ha usato per alimentarlo. Oggi questo utilizzo del “fuori il sistema” per dar condizioni di possibilità al “dentro il sistema” non è più possibile, oggi “tutto è sistema” e conseguentemente diminuiscono le possibilità nel mentre i pesi degli attori del sistema, non più solo occidentali, si redistribuiscono. Le élite, tali definite dalla posizione sociale all’interno delle società ordinate dai processi economici finanziari, si sono riservate i modi per non solo resistere ma addirittura migliorare l’accumulazione di capitale, scaricando su tutto il resto della società i costi materiali ed immateriali della oggettiva contrazione. Ne conseguono sintomi di disadattamento complessivo, poiché abbiamo modificato radicalmente il nostro ambiente (in senso ampio e non solo ecologico) ma continuiamo ad abitarlo con i modi che erano adatti precedentemente. Siamo capitati in una nuova era, continuiamo a viverla e pensarla in modo antico[4] che però continuiamo a chiamare “moderno” (più o meno “l’odierno”) confondendoci ancora di più. Soprattutto, non abbiamo percezione consapevole e diffusa dell’essere in una transizione, di quel processo in cui l’essere che non è più, non è ancora altro.
(Prima parte)
Pubblicato sul blog dell’autore il 5 luglio 2016.
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Note
[1] Su F. Braudel: https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/07/01/la-concezione-realistica-della-storia-in-fernand-braudel/.
[2] Della tradizione braudeliana, fa parte anche Giovanni Arrighi: http://www.sinistrainrete.info/globalizzazione/7506-vincenzo-marineo-quanto-e-lungo-un-secolo.html.
[3] Diversamente dagli apparati analitici che privilegiano l’innovazione economica (tanto liberali che marxisti) come motore della storia, qui si ritiene che le grandi soglie dell’evoluzione delle società umane sono comparse al raggiungimento di certi volumi demografici in rapporto al territorio, cioè alla densità. Da cacciatori-raccoglitori a stanziali (la stanzialità non fu effetto dell’agricoltura ma causa), da stanziali ad agricoli, da tribù agricole a società che fondevano più tribù, al sistema della città, poi regni, poi Stati con fiammate imperiali nei vari passaggi di fase delle ultime tre forme. Tutto ciò è avvenuto in vasti spazi e bassa densità. Ora, il gradino successivo dovrà tener conto del fatto che gli spazi sono ristretti e la densità molto alta.
[4] La differenza sostanziale tra l’impostazione di K. Marx e quella di K. Polanyi è che Marx riteneva questa forma (materialismo storico) una sorta di legge della natura sociale umana di ogni tempo e luogo mentre invece Polanyi la riteneva l’essenza propria solo del moderno occidentale, di quei cinque-sei secoli relativi alla nostra specifica storia. Noi concordiamo con Polanyi.
[5] La visione “economicista” della storia non può spiegare il suo stesso movimento. Anche solo esaminando il trapasso delle varie fasi storiche del capitalismo occidentale, se si levano le leggi, gli eserciti, il ricircolo e reinvestimento del prelievo fiscale, cioè il ruolo del potere politico, statale, colonial-imperiale, si sarebbe avuto un sistema amorfo che si sarebbe disintegrato al primo tornante della storia.
[6] Marxismo, economia neoclassica pensiero liberale, socialdemocrazia, l’individualismo metodologico, l’imperialismo, tecno-scienza come motore dello sviluppo, democrazia rappresentativa sono tutte idee e pratiche del XIX secolo. Nel XIX secolo, il mondo era abitato da un miliardo di persone che sciacquavano nei suoi vasti spazi.