di Domenico Moro
Tutti, giustamente, esprimono il loro orrore per l’attentato svoltosi a Nizza durante i festeggiamenti del 14 luglio e che è costato 84 morti e oltre 100 feriti. Altrettanto giustamente l’esecrazione degli attentatori, che si sono accaniti indiscriminatamente su una folla inerme, è universale e completa. Sarebbe, però, il caso che, almeno in certi settori che si suppongono critici, si cerchi di andare oltre l’orrore allo scopo di capire razionalmente la situazione in atto. Alberto Negri del Sole 24 Ore ieri sera, a caldo dopo gli attentati, diceva su Rai3 che, a proposito degli attentatori, non si può parlare di lupi solitari, costituiti da individui sbandati e mentalmente instabili, ma di gruppi organizzati e ideologizzati. E soprattutto diceva che i terroristi hanno portato in Europa e in Francia la guerra che da anni si svolge lungo la sponda sud del Mediterraneo.
Ciò che sarebbe bene aggiungere al ragionamento di Negri è che gli attentati terroristici in Europa rappresentano un assaggio, per quanto gli effetti siano drammatici e dolorosi per noi, di quella guerra che l’Europa occidentale e gli USA hanno esportato in Iraq, Libia, Siria, che è costata centinaia di migliaia di vittime civili, comprese donne e bambini, e che ora ritorna indietro come in un effetto boomerang. Dunque ritorna al centro d’origine quella guerra che è stata esportata da quello stesso centro ricco e avanzato negli ultimi quindici anni e che si pensava rimanesse relegata a centinaia se non migliaia di chilometri dai nostri confini, nella arretrata e povera periferia mediorientale e africana.
Non è un caso che il paese europeo più colpito dal terrorismo sia la Francia. Non solo la Francia ha responsabilità coloniali storiche in Medio Oriente e in Africa e ha al suo interno una comunità enorme di immigrati e di discendenti di immigrati da quelle aree. Soprattutto la Francia negli ultimi anni si è prodotta in una serie ininterrotta di interventi militari e ingerenze politiche e economiche non solo in Siria e Libia ma anche nell’Africa subsahariana, ad esempio in Mali e Costa d’Avorio.
È, quindi, importante ricordare che il terrorismo islamico si afferma grazie alla destabilizzazione e alla disgregazione, prodotta da Europa e USA, degli Stati mediorientali che si opponevano al radicalismo islamico, come la Siria di Assad e la Libia di Gheddafi. Soprattutto il jihadismo (e il radicalismo islamico in generale) è stato vezzeggiato, addestrato e finanziato dall’Occidente allo scopo di sgominare in Medio oriente partiti di sinistra, socialisti, comunisti, e nazionalisti e allo scopo di eliminare regimi ritenuti non amici. Tale atteggiamento storicamente parte dall’appoggio ai movimenti del Maghreb tunisino negli anni ’80 e raggiunge il suo picco con l’appoggio statunitense ai Taleban contro il governo socialista dell’Afghanistan e contro l’URSS. La guerra santa islamica, di fatto, rinasce in epoca contemporanea come invenzione occidentale in joint venture con l’Arabia Saudita per contrastare il comunismo. Ma tale appoggio al radicalismo islamico supera la fine dell’URSS e arriva fino ad oggi, quando diversi Stati della NATO, a partire dalla Turchia e dalla Francia, e diversi stretti alleati dell’Occidente, dall’Arabia Saudita al Kuwait, hanno favorito le varie milizie jihadiste e la stessa ISIS perché utili nella lotta contro Assad. Non a caso, i fratelli Kouachi, autori dell’attentato a Charlie Hebdo, erano soliti andare e tornare, a loro piacimento e senza che i servizi segreti francesi avessero nulla da dire, tra Francia, Siria e Yemen, dove si sono addestrati.
Il punto, però, è che la tendenza alla guerra dell’Occidente, che a Nizza ancora una volta è rimbalzata dalla periferia al centro del sistema mondiale, non nasce soltanto da scelte governative occidentali criminali o miopi, a seconda dei punti di vista. È il prodotto della decadenza economica dell’Occidente, connessa con i processi di globalizzazione. La crisi del modo di produzione capitalistico si manifesta in modo più forte nel centro più avanzato del sistema economico mondiale con la conseguenza che qui gli investimenti fissi e la crescita si riducono, e l’economia si deindustrializza, generando una spinta compensativa basata sulla ricerca di sbocchi all’esterno per le merci e i capitali eccedenti. La guerra e la destabilizzazione di regimi non funzionali a questi disegni di riorganizzazione economica sono connesse direttamente alla tendenza espansiva all’esterno. La Francia è forse il paese europeo che, insieme al Regno Unito, esprime con più intensità la decadenza manifatturiera e economica interna. Solo che il Regno Unito, come compensazione, almeno può contare sulla capacità finanziaria della City. La Francia è un paese economicamente in rovina con una popolazione industriale addirittura al di sotto di quella polacca, e una bilancia commerciale e delle partite correnti costantemente in grave deficit. Pochi settori dell’economia francese vanno bene, tra cui quello dell’industria militare, che fa lucrosi affari con le petromonarchie che appoggiano il jihadismo, e quello dei monopoli energetici. Non è quindi un caso se l’aggressività francese è aumentata, come prova anche il ruolo determinante avuto dalla Francia nell’attacco contro la Libia.
L’integrazione economica e valutaria europea accentua questa spinta verso l’espansionismo estero e con esso la tendenza alla guerra in tre modi. In primo luogo, l’Europa inibisce le politiche di sostegno statale all’economia e gli investimenti pubblici interni che, deprimendo ulteriormente l’economia domestica, accentuano la tendenza alla ricerca di sbocchi esterni. In secondo luogo, l’integrazione valutaria europea aumenta la divergenza economica tra paesi, ad esempio aumentando, da una parte, i deficit della bilancia commerciali, come in Francia, a cui corrisponde l’aumento del surplus commerciale in Germania. In terzo luogo, l’austerity connessa ai meccanismi dell’integrazione europea, riduce il generoso welfare che aveva fino ad ora in qualche modo sostenuto una società dove milioni di individui, a causa dei processi di ristrutturazione dell’economia capitalistica, vivono sempre di più una condizione di marginalità economica, lavorativa e politica. La maggioranza di questi individui in Francia è costituita da immigrati o da figli e nipoti di immigrati da paesi islamici. Ma l’islam, come religione, non è certo la causa del terrorismo. Su questo bisogna essere chiari, così come bisogna essere chiari sul fatto che il radicalismo islamico nelle sue varie declinazioni, compresa quella estrema jihadista, è un rivestimento ideologico di contraddizioni che sono sociali, politiche e finanche di classe. Il fatto che il conflitto di classe si esprima in forme così mascherate, distorte e controproducenti, cioè come conflitto etnico, di culture/civiltà e addirittura di religione, rappresenta un grave problema che affonda le sue radici non solo negli errori della sinistra ma anche in ampi processi storici che andrebbero capiti meglio e di cui andrebbero colte le implicazioni sul piano dell’azione politica.
Oltre a esecrare il terrorismo bisognerebbe capire che non si va da nessuna parte senza una revisione profonda della politica dell’Occidente in Medio oriente e in Africa e senza una revisione delle alleanze tradizionali con i regimi reazionari e fondamentalisti, come le petromonarchie del Golfo. C’è bisogno di una vera stabilizzazione, che non è possibile a realizzarsi se, ad esempio, si continua a considerare Assad come un nemico. Senza una inversione di rotta si va invece verso l’acuirsi dei contrasti tra paesi e anche verso l’accentuazione delle contraddizioni all’interno dei singoli paesi, favorendo la guerra tra poveri. Del resto, come detto sopra, la questione non è solo di scelte politiche. È evidente che la lotta contro la guerra e la lotta contro l’austerity e contro la riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica non possono essere scisse tra di loro. Né possono essere separate, per noi europei, dalla lotta contro i processi di integrazione economica e valutaria. Una lotta sulla cui base provare a ricomporre le divisioni non solo nazionali ma anche etniche della classe lavoratrice europea.
Pubblicato su ControLaCrisi.org il 15 luglio 2016.