di Maurizio Sgroi
Se i risparmiatori italiani piangono a causa del QE, il governo almeno ride. I tassi rasoterra, infatti, hanno consentito un calo rilevante della spesa per interessi che Bankitalia, nella sua ultima relazione annuale, riferendosi al triennio 2013-15 stima in circa 30 miliardi di euro. La qual cosa, per un paese come il nostro che paga decine di miliardi di euro per servire il proprio debito pubblico, è sicuramente una buona notizia.
Si potrebbe discutere, semmai, su come il governo abbia utilizzato questa imprevista congiuntura positiva, e per farlo dobbiamo osservare come la nostra finanza pubblica si sia evoluta negli ultimi tre anni.
Cominciamo dai dati 2015. L’anno scorso l’indebitamento netto, ossia il deficit, è diminuito dello 0,4% del PIL, portandosi al 2,6. Questa diminuzione corrisponde proprio al calo registrato sulla spesa per interessi, passata dal 4,6% del PIL del 2014 al 4,2, mentre l’avanzo primario è rimasto stabile all’1,6%. Ricordo che l’avanzo primario misura il saldo fra entrate e spese al netto della spesa per gli interessi. Ciò in pratica vuol dire che è rimasto stabile il rapporto fra entrate e spese, che detta così spiega poco.
Bisogna quindi guardare i dati disaggregati, magari allungando gli sguardi sul triennio. Due grafici ci raccontano l’evoluzione degli indicatori principali della nostra finanza pubblica a partire dal 1999. Quindi deficit, avanzo primario e debito. Se li osservate noterete che negli ultimi tre anni la curva del deficit è piatta con tendenza alla crescita, quella dell’avanzo primario tende a diminuire, mentre quella del debito si è appiattita di recente dopo una ripida impennata dopo il 2008.
Per comprendere meglio cosa ci sia dietro questa evoluzione, bisogna però guardare il conto consolidato delle amministrazioni pubbliche che Bankitalia presenta a far data dal 2010. La prima cosa che salta all’occhio è che le entrate correnti sul PIL sono aumentate di oltre due punti a fronte di un rapporto spesa/PIL sostanzialmente stabile. Si potrebbe pensare che il governo ha speso di meno, e in effetti è così. Ma questo risparmio finisce col coincidere con la minore spesa per interessi, che nel 2012, momento di picco della crisi dei debiti sovrani, aveva superato gli 83 miliardi, mentre nel 2015 è arrivata a 68,4, poco sotto il livello del 2010. «In un contesto in cui l’attività economica è risultata ancora molto al di sotto del potenziale, la politica di bilancio ha avuto un orientamento moderatamente espansivo”, spiega Bankitalia. E certo questo orientamento deve molto al calo della spesa per interessi: non avremmo potuto permettercelo se il QE non avesse svolto i suoi effetti.
Questa politica “moderatamente espansiva” si è giovata delle numerose interlocuzioni che il governo ha avuto con Bruxelles per aumentare i propri margini di flessibilità e che si sono tradotte in alcune misure fiscali e strutturali (Jobs Act, riforma della scuola). Risorse pari allo 0,1% del PIL, quindi circa 1,5 miliardi, sono state utilizzate per pagare il conto delle pensioni arretrate dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha giudicato illegittima la sospensione dell’indicizzazione decisa fra il 2012-13.
Tutto ciò ha provocato alcuni scostamenti dei consuntivi rispetto ai budget. «Nonostante la crescita economica sia stata lievemente migliore di quanto atteso, l’avanzo primario è stato inferiore all’obiettivo di 0,3 punti percentuali», spiega Bankitalia e anche qui ci ha messo una toppa il calo degli interessi «risultato maggiore del previsto».
Sul fronte delle entrate è utile segnalare che la pressione fiscale è rimasta stabile al 43,5%, ma considerando i crediti di imposta che il governo ha riconosciuto ai lavoratori dipendenti con redditi medio bassi, tale percentuale risulta più bassa dello 0,2% rispetto al 2014. In compenso sono aumentati i contributi sociali del 2%, arrivando a 218 miliardi, mentre sul versante locale nonostante l’inasprimento delle aliquote, il calo dell’Irap ha finito col provocare una diminuzione complessiva del 2,1%. Lato imposte indirette, si è registrato un gettito robusto dell’IVA, oltre 100 miliardi, e una crescita del gettito derivante dalla tassazione sugli immobili, cresciuto dell’1,1% a 24,5 miliardi. Complessivamente, rileva Bankitalia, «in Italia la pressione fiscale rimane elevata: il divario rispetto alla media degli altri paesi dell’area dell’euro, sebbene diminuito di un punto nell’ultimo triennio, nel 2015 è risultato pari a 2,4 punti percentuali», che diventa l’1,6 se si considerano i crediti d’imposta. Insomma: le tasse sono diminuite, ma non così tanto e, soprattutto, non per tutti.
Lato spese, a parte una certa stabilità con tendenza al calo contenuto, si segnala l’ulteriore crescita della spesa per prestazioni sociali in denaro, aumentata dello 0,8% nel 2015, dopo esser cresciuta dello 0,4% l’anno precedente. Questa spesa, che per il 90% è rappresentata da pensioni, «riflette soprattutto un importo medio delle nuove pensioni maggiore di quello delle pensioni cessate nell’anno, nonché l’indicizzazione dei trattamenti al costo della vita». Al contrario delle pensioni, «i redditi da lavoro dipendente sono diminuiti per il quinto anno consecutivo. Al calo (-1,1 per cento) hanno contribuito in misura sostanzialmente analoga la riduzione del numero degli occupati – principalmente per effetto delle misure che hanno contenuto il turnover dei dipendenti – e la diminuzione delle retribuzioni medie, sia per il prolungarsi del blocco della contrattazione sia per l’effetto di composizione (gli stipendi dei nuovi assunti sono in media minori di quelli dei dipendenti che lasciano il lavoro)». In crescita anche i consumi intermedi e le prestazioni sociali in natura, a 133 miliardi. Considerate che il 90% delle prestazioni in natura e un terzo dei consumi intermedi riguardano la spesa sanitaria, cresciuta dell’1% rimanendo invariata rispetto al PIL, al 6,9%. Insomma: pensioni e sanità si confermano essere il buco nero del bilancio dello Stato e soprattutto inarrestabili nella loro crescita di costi.
Tutto ciò ci aiuta a capire meglio dove siano finiti gli ingenti risparmi sugli interessi sul debito, che solo nel 2015 sono stati inferiori del 7,9% rispetto all’anno precedente. «Rispetto al livello raggiunto nel 2012 (5,2 per cento del PIL), nell’ultimo triennio l’incidenza della spesa per interessi sul prodotto è diminuita di un punto percentuale, determinando un risparmio di spesa cumulato pari a circa 30 miliardi», sottolinea Bankitalia. Se poi si confrontano i risparmi con quelli che il governo pensava di ottenere nel DEF 2012, si arriva addirittura a 50 miliardi in meno. E poiché il governo col DEF fissa la sua politica economica, possiamo dirci fortunati che l’errore, una volta tanto, sia a nostro favore. «L’inattesa riduzione della spesa per interessi nel triennio 2013-15 – conclude – ha in parte compensato la riduzione del gettito fiscale dovuta al quadro congiunturale peggiore del previsto e agli sgravi fiscali decisi nell’arco del triennio».
Insomma, se stiamo ancora in piedi lo dobbiamo alla BCE, visto che il governo ha “moderatamente” largheggiato. E poiché i tassi rimarranno bassi a lungo, secondo almeno quanto dichiarato anche di recente dai banchieri di Francoforte, ciò dovrebbe rassicurarci. Anche perché l’ipotesi contraria, ossia che i tassi salgano, visti i presupposti della nostra finanza pubblica, è tutto fuorché rassicurante.
Pubblicato sul blog dell’autore il 4 luglio 2016.