In Gran Bretagna come in Grecia? Si è appena svolto un referendum e ci si prepara a ripeterlo, magari chiamando prima, o subito dopo, delle elezioni politiche? I paragoni tra le storie dei Paesi sono sempre molto azzardati, ma il richiamo c’è.
A Londra regna il caos più grande. Dopo l’esito del referendum le agenzie di rating stanno lavorando a ridurre la tripla A del regno, e questa è una cosa che farebbe particolarmente male. a un Paese che basa la sua ricchezza sulla finanza. I vincitori sono storditi, è evidente che non sanno che pesci prendere. Dopo una campagna elettorale fondata sul “prima ce ne andiamo meglio è” ora tutti, ma proprio tutti, stanno prendendo tempo, dicono che non c’è fretta di comunicare a Bruxelles l’esito della votazione e dunque attivare la separazione. Cominciano anche a dire che un loro cavallo di battaglia, trasferire al sistema sanitario nazionale i milioni di sterline che ora si pagano come contributo all’Unione europea, non è una cosa che si può davvero fare. Lo ha detto Nigel Farage.
Anche il capo del fronte Remain, David Cameron, che non è un genio ma un po’ di cose le sa, come primo atto ha detto che si sarebbe dimesso, ma solo tra tre mesi e che non avrebbe attivato lui la procedura di divorzio. Prende tempo, perché sa che se la certificazione della volontà espressa nelle urne arrivasse a Bruxelles nessuno a Londra saprebbe poi cosa fare e come gestire la separazione (oltre a non volersi prendere la simbolica responsabilità politica e storica di una scelta che ha fatto lui). D’altra parte l’ultimo trattato commerciale firmato dalla Gran Bretagna risale a 40 anni fa, l’esperienza negoziale si è un po’ persa.
Intanto qualche elettore del Leave ammette che non era questo il risultato che avrebbe voluto.
Turisti della democrazia, verrebbe da dire, sono tutti quei politici che hanno usato il referendum a fini di politica interna, chi per dare uno scossone al partito conservatore chi per il dovere di mantenere la sua posizione storica, ma tutti convinti che il Remain avrebbe vinto, e che al massimo si sarebbe potuto cambiare premier e magari, per l’Ukip, consolidare le posizioni.
Non avevano fatto i conti con i cittadini, il che è una cosa che capita sempre più spesso nella politica tradizionale. Le persone sono arrabbiate, disoccupate, povere, sperdute e dunque all’occasione lo fanno sapere. Gli è stata data l’occasione di individuare un nemico, l’Unione europea, e in tanti l’hanno attaccato. Senza sapere che chi li portava in battaglia era più sperduto di loro, meno di loro è in grado di guardare oltre il suo naso e l’interesse della mattina dopo. Slogan senza progetti.
A pagare il prezzo di questo voto saranno, come sempre, certamente i più deboli, che poi sono quelli che hanno fatto l’inconsapevole scelta nelle urne. Saranno gli anziani e gli operai del nord dell’Inghilterra. Ma forse non solo, forse questa volta anche il sistema finanziario, padrone economico del Paese, rischia tantissimo e allora si dovrà trovare una soluzione.
Non sarà facile, ma ripetere il referendum è l’unica strada possibile per non gettare il Paese nel baratro certamente politico, ma anche economico. La crasse dirigente emersa vincente dal referendum ha già dimostrato, in meno di 24 ore, di non essere neanche lontanamente all’altezza del compito di prendere le redini del Paese. Quella che c’era ha già dimostrato la sua pochezza portando i cittadini a questo referendum in condizioni assurde, senza un piano per il dopo. Perché il problema non è tanto il referendum (per quanto votare su materie così delicate è una cosa che, se si decide di fare, andrebbe gestita meglio, con un’informazione più leale) ma è che questa volta è stato usato solo come clava interna nella convinzione che il Leave non avrebbe mai vinto. E dunque nessuno si è preoccupato del dopo.
Per questo ora la parola d’ordine è “prendere tempo” per capire cosa è successo, come affrontarlo, chi dovrà affrontarlo, con che patto con i cittadini. E’ una situazione davvero catastrofica, una Aston Martin con un bambino di sei anni alla guida. E dunque un nuovo referendum, con un’acrobazia istituzionale, potrebbe diventare l’ancora di salvezza. Ammesso che si trovi una classe politica capace di gestirlo.