Una vittoria. Azzardata, ma una vittoria. Può anche essere letto così il risultato di queste elezioni comunali per Matteo Renzi.
Evidentemente dal punto di vista del conto, e più ancora del peso dei sindaci, il Pd ha fatto molti passi indietro. E’ stata una sconfitta. Però dal punto di vista strategico del controllo sul partito e della lotta contro gli unici veri antagonisti di oggi, il Movimento 5 stelle, questo risultato può essere esattamente ciò di cui Renzi aveva bisogno.
In un sol colpo il segretario-premier, che oggi commentando le elezioni ha in particolare insistito sulla “vittoria dell’ansia di cambiamento”, ha fatto fuori buona parte della vecchia classe dirigente, quella che lui non controlla. Piero Fassino ne era ieri l’emblema. Un dirigente storico, ex segretario, ex ministro ed oramai ex sindaco il cui ruolo già era molto ridimensionato ora probabilmente ha chiuso una brillante carriera politica. “Rottamato” dagli elettori, che hanno fatto un favore a Renzi. Anche a Roma, a Napoli, tutto un gruppo dirigente del partito è stato rottamato, aprendo per il segretario la possibilità di mettere le mania gangli decisivi, il territorio, dove ancora non è arrivato ad estendere il suo controllo.
Limitandoci alle grandi città, quelle nelle quali il voto può essere considerato più “politico”, Renzi ha vinto a Milano, l’unico Comune dove era riuscito ad imporre, con grandi malumori nel partito, il suo candidato. Potrà dire, il segretario, che dove ha scelto lui il Pd governa (anche se a Napoli la sua candidata Valente, in una battaglia simile a quella di Roma contro un candidato “troppo” forte, non è arrivata neanche al ballottaggio).
A Roma la vittoria dei Cinque stelle era cosa annunciata il giorno stesso delle dimissioni di Ignazio Marino. L’unica incertezza era su chi sarebbe stato il candidato (e la scelta, con tutta evidenza, è stata giusta, regalando a Roma un sindaco giovane e donna, che di per sé significa poco e niente, bisognerà vedere cosa saprà fare, ma è un bel simbolo). E’ stato sacrificato un candidato sacrificabile, non una personalità di spicco, ma un onesto politico locale, che non ha fatto peggio di quanto avrebbe fatto chiunque altro probabilmente. E qui, a Roma, Renzi ha preso due piccioni con una fava: costringe i Cinque stelle a governare la città più ingovernabile d’Italia e piccona un gruppo dirigente in gran parte impresentabile.
La prima di queste due cose potrebbe essere decisiva. Se Virginia Raggi non riuscirà a governare una città che è un buco nero di corruzione, malfunzionamenti, clientelismo, arretratezza e chi più ne ha più ne metta, che deve convivere con il Vaticano (che rapporti ha il M5s con la Chiesa?) la competizione tra Pd e Movimento alle prossime elezioni politiche potrebbe essere decisamente facilitata per Renzi.
A questa eventualità, si aggiunga, in vista delle prossime elezioni, il ripensamento che qualcuno dice che il premier (che invece nega) sembra avere circa la legge elettorale, l’Italicum, che prevede che ci siano, realisticamente, moltissimi ballottaggi a due (ci si va se al primo turno nessun candidato raggiunge il 40 per cento). In queste elezioni comunali il Pd, sempre nelle grandi città, generalmente ha visto contro il centrodestra tradizionale, ma ha quasi sempre perso (19 casi su 20) nei ballottaggi con i Cinque stelle. Potrebbe dunque essere una buona idea quella di accettare le rimostranze della minoranza del Pd e rimettere mano a questa legge: Renzi ne avrebbe un vantaggio interno nel partito e il partito ne avrebbe un vantaggio nei ballottaggi per i deputati.
Per i referendum costituzionale di ottobre le cose invece restano complicate. I Cinque stelle avranno ancora più forza nell’opporsi, e potrebbero dunque mobilitare più elettori per votare contro. All’interno del partito invece Renzi dovrà trovare la maniera di fare un patto, e sul piatto potrebbe mettere proprio le modifiche alla legge elettorale, che la minoranza Pd vuole rimaneggiare.