dalla nostra inviata
Strasburgo – Certo non saranno paragonabili alle preoccupazioni di Londra, ma in caso di vittoria della Brexit al referendum del prossimo 23 giugno, anche Strasburgo si troverà di fronte a dei bei grattacapi. Quella in corso nella cittadina alsaziana è l’ultima sessione plenaria del Parlamento europeo prima della fatidica chiamata alle urne dei cittadini britannici. A partire dalla prossima riunione degli eurodeputati a Strasburgo, in programma dal 4 al 7 luglio, tra i banchi dell’emiciclo potrebbero sedere, nel pieno delle loro funzioni, eurodeputati di un Paese che ha già deciso di non volere più fare parte dell’Unione europea. Una situazione senza precedenti, che nessuno ha ancora capito esattamente come gestire ma che a molti comincia già a non piacere.
Tra l’espressione della volontà popolare dei cittadini britannici e l’effettiva uscita del Regno Unito dall’Unione, ci vorranno lunghi e complessi negoziati per definire le condizioni della separazione. Il periodo potrebbe durare, come previsto dall’articolo 50 del trattato sull’Unione europea, da un minimo di due anni a u massimo incerto, in tanti sostengono sarà necessario molto più tempo, il che potrebbe voler dire che paradossalmente la Gran Bretagna potrebbe votare (e lì sarà interessante vedere la percentuale di astensionismo) i suoi rappresentanti anche per la prossima legislatura, quella durante la quale effettivamente potrebbe esserci la separazione. Durante questa lunga transizione, gli eurodeputati rimarranno a tutti gli effetti eurodeputati, con pieno diritto di lavorare e votare, di ricoprire ruoli rilevanti come relatori di provvedimenti, concorrendo a decidere anche su questioni, come programmi pluriennali di lunga durata, che li riguardano in minima parte, ma soprattutto potranno votare su quelli che li riguardano. E naturalmente di percepire stipendio e indennità per loro e i loro assistenti. Giuridicamente non ci sono scappatoie possibili: fino all’uscita definitiva è impossibile depotenziare in qualche modo i rappresentanti eletti di un Paese. Diversamente da quanto avverrà nel Consiglio europeo, dove il premier (sarà ancora David Cameron) perderà il diritto di voto solo sulle questioni che riguardano i negoziati per l’uscita, anche se potrà regolarmente votare su tutto il resto.
Che alle decisioni sul futuro dell’Ue possa partecipare anche chi di quel futuro non vuol fare parte, piace però molto poco ad una buona fetta degli eurodeputati. “Il Trattato per questo caso ci dà pochi consigli”, ma “sia chiaro: chi esce, esce”, taglia corto il capogruppo del Partito popolare al Parlamento europeo, Martin Weber, quando gli si domanda quale ruolo dovrebbero avere i deputati britannici nel processo decisionale del Parlamento europeo nei prossimi due anni. Una posizione netta, come quella dell’eurodeputata della Sinistra Unita Gue, Barbara Spinelli: “C’è chiaramente un problema, la legittimità di questi rappresentanti crolla”, fa notare. Secondo Spinelli in questo modo “tutto viene enormemente falsato” perché “ci sono tantissimi rapporti in cui i britannici hanno il ruolo di relatori o di relatori ombra, ma queste persone diventano i rappresentanti di nessuno”.
E allora quale può essere la soluzione? Secondo l’eurodeputata dei Socialisti e Democratici, Mercedes Bresso, per prima cosa si dovrebbe “introdurre una regola procedurale che in applicazione dell’articolo 50 dica cosa succede in questo caso, allineando il Parlamento grossomodo alla procedura del Consiglio”, definendo cioè almeno che “quando si discuterà e si voterà la posizione del Parlamento sull’accordo di uscita i deputati britannici non potranno votare”. Un gruppo di lavoro è già all’opera per modifiche procedurali di altro tipo e in questo pacchetto si potrebbe, secondo l’eurodeputata del Pd, inserire anche qualche strumento utile per la gestione del caso Brexit. Per quanto riguarda il resto dei voti, secondo Bresso, l’unica via percorribile è quella di un “gentlemen’s agreement”, un accordo politico tra gentiluomini, almeno tra socialisti, popolari e liberali. I grandi gruppi, propone l’eurodeputata, potrebbero accordarsi per chiedere ai propri membri britannici di votare solo sulle questioni che li continueranno a riguardare, come il Mercato unico di cui Londra vuole continuare a fare parte, ma di astenersi su tutto il resto. Certo, un eventuale intesa riguarderebbe per forza solo alcuni gruppi, anche perché “non è detto che un accordo di questo tipo con gente come Nigel Farage possa funzionare”, ammette Bresso.
La maggioranza dei 73 deputati britannici non appartiene però a popolari, socialisti e liberali. Il Ppe non conta nemmeno un deputato britannico, in S&D ce ne sono 20, e uno solo appartiene all’Alde. Molti di più sono quelli conservatori ed euroscettici: 21 siedono tra i banchi di Ecr e 22 a Efdd a cui hanno aderito i membri dello Ukip. Ci sono poi un’eurodeputata nella Gue, una in Europa delle Nazioni e della libertà (il gruppo di leghisti e Marine Le Pen) e una tra i non iscritti. Difficile pensare che si possa in qualche modo convincere questi eurodeputati a non esercitare un proprio diritto. A meno che non siano gli stessi deputati britannici a decidere di fare un passo indietro, Brexit o no, per i prossimi due anni (almeno) il Parlamento europeo avrà lo stesso volto di oggi.