di Carlo Clericetti
Mai finora nelle Considerazioni di un governatore di Bankitalia si erano viste così tante e specifiche critiche alla politica europea, che riempiono quattro delle 26 pagine della relazione. Se persino Ignazio Visco si è deciso a dare rilievo a quello che non va, questo è un segnale che l’Europa “alla tedesca” ha passato il segno del buon senso e della decenza persino per chi per cultura è omogeneo all’orientamento politico dominante. E dati gli stretti legami di Visco con Mario Draghi possiamo esser certi che anche il presidente della BCE la pensa nello stesso modo.
Prima di entrare nello specifico evitiamo però di entusiasmarci troppo. Si può dare per scontato il tono diplomatico e il fatto che le critiche siano rigorosamente impersonali, perché in occasioni ufficiali come queste non ci si può aspettare niente di diverso. Ovvio anche il colpo alla botte dopo aver dato quello al cerchio, ossia un finale che è tutto un inno europeista. Meno ovvio che le critiche si concentrino su alcuni aspetti – importanti, per carità – ma non facciano cenno ad altri, che pure sarebbero di rilievo non minore. Le contestazioni, insomma, non sono alla linea politica generale, ma al modo in cui è interpretata dai tedeschi e i loro alleati, la cui protervia è disfunzionale a qualsiasi disegno comune.
Il paragrafo “La costruzione europea: progressi e incertezze” (è già il titolo è un buon esempio di cerchiobottismo) si apre ricordando «le esitazioni nel definire le modalità con cui fornire sostegno ai paesi in difficoltà» all’inizio della crisi. Dietro questa frase così delicata c’è l’ostruzionismo della Germania ad un pronto intervento sulla crisi greca perché dovevano prima essere precostituite le condizioni per il salvataggio (con i soldi di tutti) delle sue banche (e di quelle francesi e olandesi), pesantemente esposte con i debitori ellenici.
Segue la descrizione delle decisioni che alla fine furono prese, che vengono commentate così:
I risultati conseguiti sono importanti ma disomogenei. Le limitazioni alle leve nazionali sono state rapidamente poste in atto; l’introduzione e la piena condivisione degli strumenti sovranazionali segnano invece un ritardo. Anche per gli interventi comuni a sostegno di singoli paesi membri in difficoltà si è scelta la strada di una condivisione dei rischi contenuta. Con l’istituzione dell’ESM è stato superato il tenore restrittivo della clausola di divieto di salvataggio prevista dai Trattati europei che avrebbe impedito qualunque forma di assistenza; tuttavia, la capacità finanziaria del fondo è modesta, sostenuta da garanzie limitate dei paesi membri.
Il “ritardo” (o per meglio dire il blocco), il rifiuto di condivisione dei rischi, l’esile capacità finanziaria dell’ESM, sono tutte conseguenze del rifiuto tedesco di qualsiasi misura che potesse – anche solo per ipotesi – comportare un loro coinvolgimento (questa è ovviamente un’osservazione di chi scrive e non del governatore). Decisioni prese, osserva Visco, «anche prescindendo da possibili implicazioni sistemiche». Detto in altre parole: non voglio rischiare di dover intervenire con i miei soldi, anche se questo espone l’Europa a enormi rischi, tanto se c’è una crisi io (tedesco) casomai ci guadagno, perché tutti corrono a comprare i miei bund. Come dite? Se si rende la costruzione meno fragile la crisi non arriva e quindi non devo nemmeno metterci i soldi? Come è successo con il “whatever it takes” di Draghi? Sì, ma non si può escludere del tutto che vada diversamente, quindi io mi tiro indietro anche se così i rischi li faccio aumentare.
Continua Visco: «Nel caso del sistema bancario si è pressoché annullata la possibilità di utilizzare risorse pubbliche, nazionali o comuni, come strumento di prevenzione e gestione delle crisi. L’esperienza internazionale mostra che, a fronte di un fallimento del mercato, un intervento pubblico tempestivo può evitare una distruzione di ricchezza, senza necessariamente generare perdite per lo Stato, anzi spesso producendo guadagni». Il governatore evita qui di ricordare (ma lo fa poco più avanti) che questo divieto è arrivato dopo che le risorse pubbliche erano state usate da quasi tutti i paesi – e la Germania è tra chi ne ha usate di più – per salvare le loro banche. Non dall’Italia che in quella fase non ne aveva bisogno. E che le risorse comuni erano state impiegate formalmente per “salvare” la Grecia, ma in realtà per rimborsare le banche dei paesi creditori.
Ancora: la Commissione (ventriloqua della Germania) ha impedito che il Fondo di assicurazione dei depositi venisse usato per fronteggiare la crisi delle nostre quattro banche, nonché ha «ostacolato l’ipotesi di istituire una società per la gestione dei crediti deteriorati delle banche italiane», con «un’interpretazione rigida della normativa sugli aiuti di Stato, poco attenta alla stabilità finanziaria». Ce n’è anche per le disposizioni sul bail-in:
La nuova normativa costituisce una risposta a vicende occorse in sistemi bancari diversi da quello italiano, direttamente colpiti dalla crisi finanziaria globale e sostenuti da massicci aiuti di Stato. Essa è pensata per contrastare, com’è giusto, comportamenti opportunistici delle banche, ma nella sua applicazione va ricercato un equilibrio tra questo obiettivo e quello della stabilità. Diversamente da quanto proposto dalla delegazione italiana nelle sedi ufficiali, non è stato previsto un sufficiente periodo transitorio che consentisse a tutti i soggetti coinvolti di acquisire piena consapevolezza del nuovo regime, né si è esclusa l’applicazione delle norme agli strumenti di debito già collocati, anche al dettaglio. L’Unione bancaria deve essere completata con gli elementi che erano previsti nel disegno originario. Il fondo unico di risoluzione è stato costituito, ma i contributi versati dalle banche, inizialmente suddivisi in comparti nazionali, verranno messi in comune in tempi lunghi; non traspare una chiara determinazione a farne effettivamente uso. Il sistema unico di garanzia dei depositi non è ancora stato definito; la Commissione europea ha recentemente presentato una proposta, anch’essa caratterizzata da un lungo periodo di transizione. Manca in entrambi i casi un sostegno finanziario pubblico europeo, previsto fin dal Rapporto del 2012 e indispensabile per garantire la capacità dell’Unione bancaria di assicurare la stabilità sistemica.
Chi è che impone i «tempi lunghi» e fa ostruzionismo sulla garanzia dei depositi? Suvvia, la risposta non è difficile.
Un altro paragrafo per liquidare la pretesa (avanzata da chi? Anche qui non serve immaginazione) di limitare i titoli pubblici nei portafogli delle banche o “pesarli” per il rischio: «La questione va risolta in modo coordinato a livello globale, nelle sedi istituzionali appropriate», cioè non a livello UE, come i tedeschi e i loro amici olandesi stanno tentando di fare.
Anche nel disegnare il futuro dell’Unione Visco parla di soluzioni che i tedeschi non vogliono nemmeno considerare: una flessibilità di bilancio che non deve essere costretta entro regole rigide, un bilancio condiviso e anche la «prospettiva di un debito unico dell’area… anche attraverso l’istituzione di un fondo in cui far confluire parte dei debiti sovrani»; per arrivare insomma a «una forma di unione di bilancio non disgiunta da regole cogenti, da poteri di controllo e intervento».
Tutte proposte condivisibili, che hanno il lieve handicap di essere assolutamente invise al nucleo forte dell’Unione, cioè la Germania e i suoi alleati. Visco le sostiene perché evidentemente anche lui si è convinto che senza questi requisiti, che potremmo definire “minimi”, l’Europa viaggia verso l’autodistruzione. Ma anche se fossero realizzati, cosa di cui non si vede la minima probabilità, e se la struttura europea fosse democratizzata (anche di questo parla il governatore), avremmo un’Europa che si salva, ma mantiene la sua impostazione liberista. L’Europa che riduce i diritti dei lavoratori, privatizza i servizi pubblici, persegue la disuguaglianza sociale. Di questi problemi infatti il governatore non parla, non trovando evidentemente in quelle scelte nulla di disdicevole o di dannoso all’economia.
Accanto alle critiche rimangono segni precisi che non c’è una revisione dell’impostazione generale seguita finora. Deboli i richiami alla necessità di investimenti pubblici, e come al solito temperati da quelli concomitanti ai ridotti spazi di bilancio. Un richiamo esplicito, invece, a una ulteriore riduzione del cuneo fiscale, ossia ancora un intervento sul costo del lavoro, eterno alibi per evitare misure che sarebbero ben più importanti. Una terminologia che definisce ancora la crisi del 2011 come «crisi dei debiti sovrani», mentre la definizione corretta sarebbe quella di cui parla due righe più sotto: «Le esitazioni… hanno accresciuto i timori di rottura dell’area». Può sembrare una distinzione nominalistica, ma non lo è affatto: se la crisi è causata dai debiti pubblici il problema è degli Stati che li hanno elevati, se invece è provocata dalla scommessa sulla rottura dell’euro il problema è la cattiva politica europea: le cose da fare nei due casi sono sostanzialmente diverse e questo non è certo indifferente. Quanto all’Italia, si conferma il renzismo del governatore, che nei confronti del governo spende vari elogi e nessuna critica.
Dopo le Considerazioni del tutto incolori dello scorso anno, queste almeno danno qualche segno di vita. Nessuna conversione a una politica diversa, ma almeno una contestazione, chiara anche se il destinatario è solo sottinteso, di alcune delle scelte più scandalose imposte dai tedeschi e compagni. Chissà quante altre Considerazioni ci vorranno per trarre le conseguenze dal fatto che queste critiche non avranno alcun effetto. A meno che non arrivino prima quelle per commentare la disintegrazione dell’Europa.
Pubblicato sulla Repubblica l’1 giugno 2016.