di Luigi Pandolfi
Tempo di pagelle e di previsioni, per l’Italia e per l’Europa. Per il nostro paese, in particolare, l’ISTAT certifica che la ricchezza nazionale, a marzo, è cresciuta soltanto dello 0,3% rispetto al trimestre precedente (+1,0% rispetto al primo trimestre del 2015), mentre l’indice nazionale dei prezzi al consumo è sceso dello 0,1% su base mensile (-0,5% su base annua), confermando come la tendenza deflattiva sia ben lungi dall’arrestarsi, nonostante la politica monetaria espansiva della BCE.
Come se non bastasse, l’Istituto di statistica rileva anche che, su base congiunturale, la produzione industriale rimane ferma al palo, con arretramenti nei settori dei beni strumentali (-1,6%), dei beni intermedi (-1,2%) e dei beni di consumo (-0,7%). Intanto, è arrivata la tanto attesa lettera della Commissione al governo sui conti pubblici, nella quale si promettono 14 miliardi di flessibilità, in cambio però di impegni precisi, inderogabili, sul rispetto degli obiettivi di finanza pubblica già a partire dall’anno prossimo (rapporto deficit/PIL all’1,8%, pareggio di bilancio entro il 2018). Come a dire: l’uovo di oggi lo pagherete col digiuno domani. Ma è questo ciò che serve oggi all’Italia e all’Europa?
Nelle letture più attendibili sulla crisi in Europa, il rapporto squilibrato tra centro e periferia ha avuto sempre un peso rilevante. È ormai assodato, d’altronde, che alla radice dei problemi di alcuni paesi periferici, a cominciare dalla Grecia, ci sia stata una dinamica fatale tra indebitamento e consumi. Capitali che dal centro sono defluiti verso la periferia per sostenerne la domanda interna, alimentando una gigantesca macchina del debito, soprattutto privato. Una storia di surplus da un lato, di deficit dall’altro. Basta ricordare che paesi come la Spagna, la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda sono arrivati ad accumulare un debito con l’estero superiore anche al 90% del proprio prodotto interno lordo. Poi, quando la bolla è scoppiata, il rubinetto del credito è stato chiuso, ma i debiti sono rimasti. E una parte di questi, da privati sono diventati pubblici, debito pubblico.
Nel frattempo, crisi e austerità hanno continuato a fare il loro corso, producendo, tra le altre cose, anche un maggiore equilibrio delle bilance dei pagamenti in ambito europeo. Perfino la Grecia, nel 2013 ha fatto registrare un surplus nella bilancia delle partite correnti, il primo dal 1948, da quando cioè la Banca di Grecia ha iniziato ad annotare questi dati. Cos’è successo? Forse che tutti i paesi della zona euro sono diventati d’un tratto locomotive dell’export? Nient’affatto. Al netto di qualche discreta performance che ha riguardato recentemente alcuni paesi, tra cui l’Italia e la Spagna, le locomotive sono rimaste locomotive, mentre tutti gli altri hanno semplicemente stretto la cinghia.
Così, mentre un paese come la Germania – grazie anche alla conquista di quote importanti del mercato asiatico – continua a brillare per i propri attivi commerciali che superano abbondantemente i 200 miliardi di euro annui, i paesi periferici continuano a far discutere per il crollo che il reddito pro capite dei loro cittadini ha subìto dall’inizio della crisi. Si va dal -25% dei greci – seguiti dagli italiani con un drammatico –
12% – al calo del 5,8% di quello portoghese. Meno soldi in tasca, meno consumi, meno import. In pratica, i paesi PIIGS hanno riequilibrato i propri conti con l’estero scaricandone i costi sui cittadini, senza scalfire i rapporti di forza commerciali in ambito europeo. Un dato su tutti: il surplus delle partite correnti della Germania ha raggiunto nel 2015 l’8,5% del prodotto lordo, 257 miliardi di euro, a dispetto dei limiti imposti dalle regole europee ai paesi membri, sia per i surplus che per i deficit eccessivi.
Tornando all’ultima nota dell’Istat, i dati del primo trimestre di quest’anno relativi alla bilancia commerciale italiana sono molto eloquenti a tal riguardo. A marzo, rispetto al mese precedente, le importazioni del nostro paese hanno subìto un arretramento pari al 2% (-0,3% anche per le esportazioni), che, su base annua, significa un crollo dell’11% (-5,2% per l’export). Un indicatore che chiama in causa la domanda ancora troppo bassa, insieme ai numeri tuttora da brivido sulla disoccupazione, nonostante le riforme del mercato del lavoro, alle quali è legata una fetta della flessibilità concessa da Bruxelles.
Nel complesso, la zona euro si dimena tra deflazione, stagnazione e calo della produzione industriale, segno che la crisi ha ormai carattere strutturale. Eppure, tra le pieghe dei numeri che circolano in questi giorni relativamente agli indicatori macroeconomici dei vari paesi, si può cogliere qualche segnale in controtendenza. Ancora in Germania, dove si registra una ripresa più apprezzabile della domanda interna, nonostante le politiche di moderazione salariale di questi anni. Facile: con una disoccupazione ai minimi dagli anni novanta, il reddito disponibile è, complessivamente, maggiore che in qualsiasi altro paese europeo. Non solo. Proprio il regime di (quasi) piena occupazione sta favorendo una ripresa della dinamica salariale, che, com’è prevedibile, farà sentire i suoi effetti sui consumi, quindi sull’inflazione.
Lo scorso 13 maggio, il sindacato dei metalmeccanici IG Metall e i datori di lavoro hanno raggiunto un accordo in Nord Reno-Westfalia che prevede un aumento del 4,8% in due anni dei salari del settore, insieme ad un versamento una tantum di 150 euro. Si tratta di un accordo pilota, da estendere a tutto il paese, che coinvolgerà a regime circa 4 milioni di lavoratori. Dopo anni di svalutazione interna, un piccolo dividendo per i lavoratori, insomma. Ma anche un esempio di come gli squilibri economici siano la regola di questa Europa, a dispetto degli equilibri formali delle bilance commerciali. Chi fa finta di non accorgersene, proprio in queste ore, è il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, che, senza pudore, richiama il nostro paese ai suoi doveri, ammonendo che «col debito non si fa crescita». Quale debito, di grazia?
Pubblicato sul manifesto il 18 maggio 2016.