di Giorgio Lunghini
Che cosa pensare di questo nostro povero paese, in cui soltanto pochi stanno bene? Eccone i tratti somatici: tre milioni di disoccupati; più di dieci di inattivi, di cui quasi due milioni perché “scoraggiati”; due milioni e mezzo di precari; quasi due milioni di lavoratori in nero; una evasione fiscale complessiva tra il 20 e il 30% del PIL; una distribuzione del reddito tale che l’1% della popolazione possiede oltre il 10% della ricchezza complessiva – mentre in sette milioni vivono in povertà.
L’Italia non rispetta dunque due dei “principi fondamentali” della sua Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» e «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; né della Costituzione si rispetta l’articolo 53: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Oltre i 75.000 euro di reddito, che è oggi il quinto e ultimo scaglione di reddito, l’aliquota IRPEF è invece ferma al 43%.
Che l’incapacità a assicurare la piena occupazione, e una distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi, siano i mali più evidenti della società economica nella quale viviamo, e mali destinati a aggravarsi se permane l’attuale processo di deflazione, l’aveva già capito J. M. Keynes; che ne aveva suggerito una terapia nelle Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la teoria generale potrebbe condurre (1936). Il disegno di Keynes è articolato in tre tesi.
La prima, a sua volta, è articolata in due punti:
È falsa la tesi ancora oggi corrente, secondo la quale l’accumulazione del capitale dipenderebbe dalla propensione al risparmio individuale, e che dunque in larga misura l’accumulazione di capitale dipende dal risparmio dei ricchi, la cui ricchezza risulta così socialmente legittimata. Proprio la Teoria generale mostra invece che, sino a quando non vi sia piena occupazione, l’accumulazione del capitale non dipende affatto da una bassa propensione a consumare, ma ne è invece ostacolata.
La propensione marginale al consumo dei ricchi è minore di quella dei poveri.
Dunque una redistribuzione del reddito per via fiscale, dai ricchi ai poveri, farebbe aumentare la propensione media al consumo, dunque la domanda per consumi dunque gli investimenti dunque la domanda effettiva dunque il reddito nazionale dunque l’occupazione.
La seconda tesi di Keynes riguarda il saggio di interesse. La giustificazione normalmente addotta per un saggio di interesse moderatamente alto è la necessità di incentivare il risparmio, nell’infondata speranza di generare così nuovi investimenti e nuova occupazione. È invece vero, a parità di ogni altra circostanza, che gli investimenti sono favoriti da saggi di interesse bassi; così che sarà opportuno ridurre il saggio di interesse in maniera tale da rendere convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale. Di qui la cicuta keynesiana, di straordinaria attualità: “l’eutanasia del rentier” e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. L’interesse non rappresenta il compenso di nessun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra, e oggi i tassi di interesse sono già bassi per effetto della politica monetaria perseguita dalla Banca centrale europea. Tuttavia ciò ha colpito i piccoli redditieri ma non i grandi speculatori; e d’altra parte le banche non trasmettono alle imprese gli effetti di quella politica monetaria, poiché preferiscono il più tranquillo e redditizio acquisto di titoli di Stato.
Qui sarebbero possibili interventi del governo, mentre per le grandi istituzioni finanziarie sarebbe necessaria una regolamentazione sovranazionale – va infatti ricordato che sia a livello nazionale sia a livello internazionale queste istituzioni costituiscono una sorta di “senato virtuale”; senato virtuale che è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano ‘irrazionali’ tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale). L’Italia ne sa qualcosa.
Terza tesi di Keynes, circa il ruolo dello Stato:
Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse. Sembra però improbabile che l’influenza della politica monetaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento: ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena.
Nel caso dell’Italia questa tesi dovrebbe esser letta in questo modo: non privatizzare le industrie pubbliche né sollecitare investimenti esteri, poiché questi non costituiscono “investimenti” ma semplici trasferimenti di proprietà e dei profitti associati; e sottintendono la vergognosa convinzione che i privati, con qualsiasi passaporto, siano imprenditori migliori di quelli pubblici nazionali: questo è però un problema del nostro ceto dirigente.
Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento) come strumenti per combattere la disoccupazione e l’ineguaglianza può sembrare una predica. Sono invece riforme possibili, ben fondate teoricamente e socialmente desiderabili: a differenza delle “riforme passive” di cui è fatta l’agenda di questo governo (che tali si potrebbero definire per analogia con le “rivoluzioni passive” di Cuoco e Gramsci). Sotto a tutte le decisioni di politica economica c’è una qualche teoria economica e dunque una qualche filosofia sociale.
Quale sia la teoria economica e la filosofia sociale che ispirano il nostro governo non è chiaro, tuttavia esso sembra credere ancora alla vecchia teoria neoclassica, fondata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, teoria che per un aumento dell’occupazione indica come necessaria e sufficiente una riduzione del costo del lavoro; e la cui filosofia sociale è quella del “laissez-faire”: motto che risale a un incontro tra il ministro Colbert e un mercante di nome Legendre intorno al 1680: alla domanda di Colbert «Que faut-il faire pour vous aider?», la risposta di Legendre fu «Nous laisser faire!»: «Lasciate fare a noi mercanti!».
Pubblicato sul manifesto l’11 maggio 2016.