di Sergio Farris
Di recente, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble e il governatore della Bundesbank Jens Weidmann hanno avuto un atteggiamento severamente critico riguardo alla politica monetaria espansiva posta in essere dalla Banca centrale europea.
Il primo, nel parlare di rischi e problemi della politica monetaria accomodante, ha accusato il presidente Draghi di essere corresponsabile del successo elettorale del partito anti-immigrati Alternative für Deutschland (salvo poi parziali correzioni di tiro da parte del ministero tedesco); il secondo ha dichiarato che è «quantomeno problematico l’approccio di sostenere i singoli Stati membri attraverso l’Eurosistema, acquistando ad esempio i titoli di Stato di paesi in crisi. Ciò offusca i confini tra la politica monetaria e la politica di bilancio e comporta il rischio di un trasferimento dei rischi di bilancio in capo ai bilanci delle banche centrali».
Si può ritenere che entrambe le posizioni denuncino una sorta di interventismo eccessivo, da parte della BCE, in favore dei paesi indebitati della zona euro. In realtà, la banca centrale sta adottando la sola politica che, nell’ambito delle sue possibilità, è in grado per ora di salvare l’euro, nonostante essa non risolva gli squilibri interni all’unione monetaria che hanno originato la crisi nella quale essa tuttora si dibatte. Si può parlare di una situazione di stallo, nella quale ai paesi indebitati e fiaccati da anni di austerità viene concesso un po’ di respiro consistente nella riduzione dei tassi d’interesse (senza fare passi indietro né rispetto alle riforme strutturali, né rispetto al percorso di aggiustamento previsto dal fiscal compact), probabilmente in modo da guadagnare tempo nell’attesa e nella speranza che, in qualche parte del mondo, riparta la domanda.
Ciononostante, l’avere ridotto i tassi a zero e addirittura sottozero per quanto riguarda i tassi sui depositi delle banche presso la BCE stessa, è visto da parte tedesca non solo come una mossa che penalizza i risparmiatori tedeschi, ma anche come una politica che mette a rischio lo stesso sistema bancario, le compagnie di assicurazione e i fondi pensione.
I tedeschi ritengono inoltre che tale politica renda i paesi indebitati riluttanti all’effettuazione delle riforme e alla riduzione del debito, minacciando così la stabilità dell’eurozona. Secondo tale punto di vista la deflazione sarebbe il male minore, in quanto il peso reale dei debiti coarterebbe i paesi indolenti a ridurre, tramite i tagli, il debito. Il fatto poi che Draghi cerchi di riportare l’inflazione sopra lo zero (tentativo che non sta, peraltro, sortendo tangibili effetti) è mal visto da parte tedesca perché l’inflazione, come si sa, erode il valore reale dei crediti. Nonostante lo stesso Weidmann abbia ribadito che la banca centrale è un istituto indipendente dalla politica, non è impossibile che il quantitative easing di Draghi debba, se non venire dismesso prima della scadenza preventivata, perlomeno venire ridimensionato.
Il problema della zona euro è stato in effetti, dall’inizio della crisi, la divergenza di interessi fra paesi creditori e paesi debitori, nodo che non si è mai voluto sciogliere. Se oggi l’impatto della politica monetaria messa in atto dalla BCE è asimmetrico, lo è perché asimmetrica è la condizione alla quale le politiche di austerità hanno condotto le economie periferiche dell’unione rispetto alle quelle centrali. I costi degli squilibri sono stati fatti gravare interamente sulle prime, le quali patiscono tuttora un livello di disoccupazione per contrastare il quale servono bassi tassi d’interesse e margini di bilancio per incrementi di spesa. Se la Germania teme il fatto che i paesi periferici possano, approfittando della politica lasca della BCE, continuare a indebitarsi, dovrebbero anche riconoscere che la propria idiosincrasia nei confronti dell’indebitamento è insensata. Se l’eurozona si trova in sostanziale stagnazione e un soggetto considerato solvibile, come lo Stato tedesco, il quale ha da anni la possibilità di finanziarsi a un tasso praticamente pari a zero, non coglie l’occasione di mettere a frutto la liquidità disponibile, chi dovrebbe farlo?
Ma non è tutto: il problema è anche la teoria economica posta alla base della costruzione della Unione europea. La Germania può dirsi ligia alle prescrizioni fissate nei trattati economici europei, cioè bilancio pubblico in tendenziale equilibrio e controllo dell’inflazione. Hanno buon gioco i tedeschi ad asserire che la politica espansiva della BCE induce una certa rilassatezza dei bilanci dei paesi periferici e che la deflazione è meno peggiore dell’inflazione. Se si consente, come dice Weidmann, una certa flessibilità di bilancio, permettendo alla BCE l’acquisto dei titoli di Stato, questi paesi non effettueranno le riduzioni di spesa necessarie per tornare ad essere competitivi e virtuosi e, ancora peggio, presto l’inflazione potrebbe rialzare la testa, arrivando così a far pagare ai virtuosi i rischi della prodigalità altrui. Dunque, non deve esservi alcuna condivisone dei rischi. L’obiettivo deve essere, per tutti i paesi, quello di raggiungere nel lungo termine conti pubblici solidi e strutture economiche competitive (leggasi deflazione salariale). Così si spiega la proposta tedesca di istituire un organismo sovranazionale di controllo delle finanze pubbliche degli stati membri aderenti alla UE.
L’interrogativo dovrebbe essere, tuttavia, se la situazione idealizzata nei trattati istitutivi dell’Unione sia sostenibile o meno per l’insieme degli stati facenti parte dell’eurozona. La logica tedesca ha, purtroppo, i trattati europei dalla sua parte e sotto questo aspetto è sempre mancata una seria iniziativa critica da parte dei paesi che hanno subito le politiche di austerità. Nonostante, in pratica, tutti i paesi della zona euro che prima non l’avevano abbiano ottenuto a colpi di austerità e indebolimento della domanda interna un avanzo o una posizione in sostanziale pareggio delle partite correnti, i tedeschi restano fermi nelle loro convinzioni, considerando la attuale situazione di stallo insoddisfacente. Ciò che proprio sembra sfuggire loro è che le politiche di austerità applicate ai paesi indebitati all’indomani della crisi iniziata nel 2008, hanno solo spostato in là i veri problemi.
I tedeschi continuano pervicacemente a non voler capire che la situazione corrente deriva dal loro ostinato rifiuto, nonostante ve ne fossero le condizioni (abbondante risparmio e facili condizioni di finanziamento per il settore statale), di rilanciare la propria domanda interna e di imprimere uno sviluppo dell’unione valutaria verso un’unione fiscale (non però nel senso di istituire un organismo centrale a guardia dell’austerità come inteso da Weidmann). Quello che temono li danneggi è in realtà solo un parziale sollievo per i paesi periferici dell’eurozona. È del tutto evidente, infatti, che facilitare le condizioni per il credito in questi paesi non è sufficiente al fine di stimolare una robusta ripresa di investimenti e consumi. Non è, parimenti, ipotizzabile una ripresa dell’eurozona sostenuta soltanto dalle economie più fragili ed alle prese con i propri settori finanziari in condizioni di deterioramento (come l’Italia).
L’azione della BCE di Draghi sta solo cercando di evitare guai peggiori. La deflazione a oltranza significherebbe andare verso la rottura dell’eurozona. Innescherebbe nuove fughe di capitali dai paesi periferici dove i debiti diverrebbero presto insostenibili. A meno che, come ipotizzato qui, la Germania non abbia già messo in conto tale eventualità. A ben vedere, già nell’estate del 2015 Schäuble aveva proposto l’espulsione temporanea dall’eurozona della indisciplinata Grecia, rea di non voler trovare un accordo circa l’entità degli avanzi di bilancio per gli anni a venire che le venivano richiesti.
Ragionando altrimenti, si può ritenere che se invece la Germania non vuole giungere alla disgregazione dell’unione monetaria, la propria classe dirigente ha un credo talmente fideistico nella teoria alla base dei trattati sull’unione economica e monetaria da forzare la situazione fino al punto in cui l’intera zona euro diverrà un’area mercantilistica ricalcata sulla sua struttura con, ovviamente, la periferia ridotta ad area di lavoro a basso costo sulla falsariga dei paesi dell’Est Europa. Se questo dovesse essere l’esito, non è detto, comunque, che un’unione siffatta reggerebbe a lungo.