“La Germania è il maggior problema dell’Eurozona”. Sono un paio di giorni che mi arrovello su questo titolo. In sé, per alcuni almeno, è quasi banale, c’è chi scrive questa cosa da almeno tre-quattro anni. Anche io credo sia piuttosto vero. Il fatto è che questa frase non è apparsa in qualche luogo estremista o anti-tedesco, ma è il titolo di un dotto e documentato editoriale di Martin Wolf, uno dei più prestigiosi ed influenti editorialisti del Financial Times. Insomma la cosa, come mi ha fatto notare un’analista che stimo, sta diventando mainstream. E il fatto che la Germania sia un problema probabilmente può essere esteso anche ad altri temi, come le politiche sulle migrazioni, l’energia, il rapporto con la Russia e la Cina…
Però ora mi spavento. Che anche grandi analisti come Wolf, alla fine, dopo anni, ammettano che esiste in qualche modo un problema tedesco mi soddisfa perché su questo giornale lo scrivevamo da anni. Però in questi anni sono successe delle cose per le quali ora ho paura a indebolire Angela Merkel. Dovrebbe essere lei a farsi, come si diceva una volta, parte dirigente e mettere a posto alcune cose, ma dovrebbe sottrarsi alla possibilità di attacchi (anche giusti) come quello di Wolf.
Sono spaventato perché data la situazione generale attuale in Europa e date le scadenze dei prossimi 16 mesi circa, potremmo trovarci alla fine del prossimo anno con un panorama europeo totalmente diverso e, francamente, pessimo per tutti.
Prima di Wolf l’altra scintilla è stata il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali austriache, nelle quali è straordinariamente in testa il candidato della destra estrema, xenofobo, anti-immigrati ed euroscettico. Ma di scintille ce ne sono state tante, come ad esempio le elezioni generali polacche. Disegnando un panorama che si ferma ai principali Paesi europei c’è da essere terrorizzati delle evoluzioni possibili.
Se Merkel con tutti i suoi errori supinamente accettati in particolare dalla passata Commissione europea e i socialdemocratici oramai svuotati di contenuto politico che governano con lei, dovesse crollare sotto gli attacchi che arrivano da più parti (il che è anche normale dopo 13 anni di governo) si aprirebbe un’autostrada per l’opposizione che sta crescendo in Germania, che è una becera opposizione coinvolta con esponenti neonazisti e che ha avuto un ottimo risultato alle ultime elezioni nei Länder. Non c’è, al momento, alternativa politica non estremista alla grande coalizione, e l’esperienza austriaca può essere un buon indicatore di come potrebbe orientarsi un’opinione pubblica scoraggiata e insoddisfatta.
In Francia il disastro politico di François Hollande è lì che si consuma ogni giorno, mentre anche lì la destra estrema del Font National cresce nei sondaggi e, soprattutto, nei voti. Il centrodestra è diviso, pensa di recuperare il settantenne Alain Juppé da contrapporre ad un altro campione oramai consumato come Nicolas Sarkozy. Non si vede nulla all’orizzonte che possa seriamente contrapporsi a Marine Le Pen, se non come voto di “argine” più che di “consenso”.
In Italia Matteo Renzi ha messo il suo futuro politico nelle urne del referendum costituzionale di ottobre. Se lo perderà si ritirerà. La scelta per alcuni versi è comprensibile, forse, in assoluto, è anche giusta e onesta. Ma nel contesto, perché è a quello che dobbiamo guardare da qui a Bruxelles, è pericolosissima. Se Renzi cade chi vincerà le prossime elezioni? Forse nessuno (anche perché cadrebbe con la riforma anche la nuova legge elettorale) o forse il maggior antagonista del governo, quel Movimento 5 Stelle pieno di buone ambizioni ma anti-euro, sostanzialmente euroscettico, certamente non (ancora) dotato di personalità in grado di guidare un Paese.
La Spagna è un’altra grande incognita. Tornerà al voto tra breve in una grande incertezza sui risultati, che moti osservatori vedono con preoccupazione perché potrebbe, ancora una volta, non vincere nessuno.
In Polonia, l’abbiamo già visto, governa un primo ministro che ha iniziato il suo mandato togliendo le bandiere europee da dietro la sua scrivania, almeno, ha promesso, quando parla di questioni che non riguardano l’Unione. Difficile però sapere cosa non riguarda l’Unione europea, oramai.
E poi, a giugno, c’è il referendum britannico sulla Brexit. Se i cittadini sceglieranno di lasciare l’Unione sarebbe (a parte i problemi per loro stessi che inizierebbero il giorno dopo) per il progetto europeo una sconfitta cocente, un abbandono è sempre una sconfitta, un indebolimento. Che potrebbe, tra l’altro, portare ad una contaminazione di richieste di referendum in altri Paesi.
Ecco, questo è il quadro al quale ci troviamo di fronte. Il rischio di un disastro per il progetto europeo e un disastro politico in molti Paesi.
Mi si dirà che questo è un quadro pessimistico (per alcuni, lo so, sarebbe invece idilliaco, ovviamente, ed è legittimo anche se sbagliato pensarlo). Ma quali elementi abbiamo per dirci che le cose non andranno così? Perché le cose non dovrebbero andare a rotoli? Cosa abbiamo in mano per pensare che vadano bene? Niente, se non un ottimismo senza gambe. Certo è difficile che tutte le evoluzioni indicate per i casi esposti vadano nello stesso verso, ma basta che lo facciano due o tre perché il risultato sia una catastrofe.
Lo ha detto bene il capogruppo dei socialdemocratici al Parlamento europeo Gianni Pittella, sostenendo, cito a memoria che “se i socialdemocratici fanno le politiche della destra poi alle elezioni vince la destra”. E questo vale anche per i centristi o per il centrodestra. C’è bisogno di nuove idee, di nuovi progetti e di nuove persone per realizzarli (molte delle forze euroscettiche emergenti sono guidate proprio da persone nuove e spesso giovani, non compromesse con il passato politico del loro paese, non è un caso) . Questa è la sfida per chi crede nel progetto europeo, e non solo, che richiede coraggio negli “anziani” e impegno nei giovani.