Roma – “Ci sono reti transnazionali che commettono frodi ai danni dell’Ue e dunque servono strumenti di contrasto transnazionali”. Il sottosegretario agli Affari europei, Sandro Gozi, presenta così il progetto di collaborazione e scambio di informazioni in materia di lotta alle frodi sui finanziamenti europei avviato con i Paesi aderenti al programma Ipa-Adriatic. Si tratta di quattro Stati membri (Italia, Grecia, Croazia e Slovenia) e quattro candidati all’adesione (Albania, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Serbia) che parteciperanno al progetto ideato e promosso dall’Autorità di gestione Ipa-Adriatic e dal nucleo della Guardia di Finanza presso il dipartimento Politiche Ue della Presidenza del Consiglio.
L’iniziativa assume una valenza particolare perché il contrasto alle frodi sui fondi europei destinati alla Macro Regione adriatica si scontra con la “complessità regolamentare di lavorare con quattro Paesi non membri dell’Unione europea”, a che dunque hanno quadri normativi meno omogenei rispetto a quelli degli Stati Ue. Lo sottolinea Paola Di Salvatore, dirigente dell’Autorità di gestione Ipa.
Insieme con il generale Francesco Attardi, comandante del Colaf (Comitato per la lotta anti frode sui finanziamenti comunitari), Di Salvatore sottolinea un altro punto critico. Non bastano le attività di prevenzione e controllo sulle truffe, è l’azione di recupero delle risorse a rappresentare un aspetto problematico. Infatti, quando un’irregolarità viene accertata, l’Unione europea chiede allo Stato membro di recuperarla. Se ciò non avviene in tempi ragionevoli, però, l’importo viene trattenuto dalle erogazioni successive.
In pratica è “un doppio danno”, sintetizza Attardi. Non solo, ciò si traduce in una scarsa propensione degli Stati a individuare le frodi, denuncia Giovanni Kessler, direttore generale dell’Olaf (Ufficio europeo per la lotta alle frodi ai danni dell’Ue). Secondo il funzionario, si tratta di una “tendenza minoritaria ma presente”, perché “spesso chi ha commesso la frode ha già portato i soldi chissà dove, e quindi è lo Stato membro a doverli restituire all’Unione europea”.
Sulle dimensioni del non corretto utilizzo dei finanziamenti europei è Kevin Cardiff, componente della Corte dei Conti dell’Ue a intervenire. “Secondo il tasso di errore che noi calcoliamo, oltre il 4% del budget dell’Ue è speso male”, sostiene il magistrato contabile, il quale però è convinto che “gli Stati membri possono fare di più per ridurre questo tasso di errore anche con gli attuali sistemi di controllo”.
Sembra concordare il sottosegretario Gozi, quando invita a “pretendere che tutti i Paesi membri abbiano nella lotta alle frodi contro gli interessi dell’Ue lo stesso impegno e vigore che hanno nella lotta alle frodi che ledono i loro interessi nazionali, cosa che purtroppo non sempre accade”. Per l’esponente dell’esecutivo, contrastare gli illeciti sui finanziamenti comunitari “è sempre un dovere, ma lo è ancor di più in un momento di difficile congiuntura economica”.
In periodo di crisi, infatti, diventa fondamentale utilizzare tutte le risorse a disposizione per creare sviluppo. Non farlo a causa delle frodi, “non solo lede gli interessi dello Stato membro e del contribuente europeo”, denuncia ancora Kessler, “ma mette in discussione l’intero progetto europeo”. Il ragionamento del direttore di Olaf è lineare: siccome “alcuni Paesi contribuiscono più di altri al bilancio” dell’Unione europea, se i loro cittadini “vedono i propri soldi finire in frodi e corruzione” il rischio è di “mettere in crisi la solidarietà” sulla quale si fonda l’Ue.
Un problema che viene acuito da un ulteriore elemento di ambiguità: le statistiche sulle frodi commesse. “Io sono il primo ad avere dubbi sui dati che forniamo”, confessa Kessler. Il problema non è sulla loro affidabilità, ma sulla loro validità come indicatore della cattiva gestione dei finanziamenti. Alcuni Paesi, e tra questi l’Italia, si trovano sempre ai primi posti per numero di frodi accertate, e finiscono per essere additati come quelli in cui avvengono più episodi. In realtà, secondo Gozi, “avere pochi casi di frode vuol dire sempre più che non si è fatto un buon lavoro di contrasto, e non che il numero di casi sia effettivamente basso”.