di Guido Iodice e Thomas Fazi
In una recente intervista a Le Figaro, il ministro dell’Economia Padoan ha usato parole molto dure contro l’Unione europea. Secondo il titolare di via XX Settembre, le regole europee «imponendo all’Italia aggiustamenti dolorosi, le recano maggior danno che ad altri paesi, e questo non mi va bene». Di più: Padoan spiega che i calcoli dell’UE sono sbagliati e viziati da «deformazioni statistiche».
Il ministro si riferisce al calcolo del saldo strutturale del bilancio pubblico, contro il quale il MEF ha ingaggiato una serrata polemica poiché la metodologia finisce per trasformare quella che doveva essere una forma di flessibilità in caso di crisi in una ulteriore rigidità che costringe ad aggiustamenti particolarmente dolorosi che, deprimendo la domanda interna, finiscono per ridurre il PIL e quindi per aumentare il rapporto deficit/PIL. In un circolo vizioso anti-keynesiano, le politiche procicliche allontanano il bilancio pubblico dall’agognato pareggio invece di avvicinarlo, lasciando peraltro sul terreno milioni di disoccupati. Nonostante ciò, il ministro sostiene che l’Italia comunque «rispetterà lo sforzo di aggiustamento che le è richiesto», anche se in ciò rivendica il diritto ad utilizzare tutte le clausole di flessibilità previste dalle regole più recenti.
Nel nostro recente libro La battaglia contro l’Europa spieghiamo tra l’altro perché sul punto “tecnico” (quello dei calcoli del deficit strutturale) Padoan ha perfettamente ragione. Difatti la letteratura empirica più recente ha dimostrato che tale calcolo è prono ad errori dovuti al fatto che è difficile stimare il tasso di disoccupazione di equilibrio al quale si troverebbe l’economia se viaggiasse al massimo del suo potenziale. Sbagliando questa stima, tutto il resto ne viene inficiato, per cui si sottostimano il PIL potenziale e il gap tra questo e il PIL attuale. Il risultato, come dicevamo, è che si impongono politiche di austerità per paura che un eccesso di domanda porti all’accelerazione dell’inflazione, quando invece siamo in un ambiente di quasi-deflazione.
La sordità delle burocrazie europee a queste considerazioni, la volontà pervicace di non voler vedere l’ovvio, ovvero che non c’è alcun pericolo inflattivo se si aumenta il deficit, non è che lo specchio di una scelta politica fatta in altre sedi. Ed è su questo terreno, quello politico, che l’Italia dovrebbe ingaggiare la propria sfida, a nostro parere, insieme a Grecia, Portogallo e al probabile nuovo governo che si formerà in Spagna dall’alleanza PSOE-Podemos.
E tuttavia, anche le tecnicalità in questa battaglia avranno un loro peso, poiché diverse soluzioni tecniche alludono a diverse scelte politiche e presentarsi senza una soluzione tecnica significa non avere argomenti di fronte ai tecnicismi della controparte negoziale. Ne La battaglia contro l’Europa abbiamo voluto esaminare le vie di uscita dalla crisi. La prima di queste – che escludiamo, perlomeno alla luce degli attuali equilibri politici internazionali – è l’uscita solitaria del nostro paese (o di qualunque altro paese periferico) dall’unione monetaria. Non certo perché difendiamo l’euro e la sua costruzione a dir poco fantasiosa.
Al contrario, chi scrive ha sempre pensato che dall’adesione a Maastricht l’Italia ci abbia più rimesso che beneficiato. E tuttavia oggi l’euro c’è, e chi propone di uscirne un venerdì notte in gran segreto per vedere di nascosto l’effetto che fa non ha neppure lontanamente considerato l’intreccio finanziario che esiste tra i paesi dell’eurozona e tra questi e il resto dell’economia mondiale (basti pensare che l’euro è la seconda valuta di riserva globale) e quindi gli effetti di contagio che una scelta del genere avrebbe proprio su quei partner a cui poi dovremmo esportare grazie al cambio svalutato.
E non solo: anche sul tasso di cambio si può fare poco affidamento in un ambiente di scarsa crescita della domanda globale, già ora, senza bisogno di mandare a gambe all’aria i sistemi finanziari dell’eurozona. Basti guardare al clamoroso fallimento della svalutazione dello yen. Ma in generale, almeno dal 2011 in poi, nessuno dei paesi che ha svalutato ha conosciuto un miglioramento significativo dei propri conti con l’estero, al netto del calo del prezzo del petrolio e dell’effetto di compressione della domanda interna dovuto all’austerità. La verità è che se uscissimo dall’euro ne provocheremmo il disfacimento disordinato e una crisi finanziaria senza precedenti (come riconoscono anche i no-euro più intelligenti).
In un contesto del genere i paesi strutturalmente più deboli, tra cui l’Italia, dovrebbero garantirsi l’afflusso di capitali esteri (non certi) o cercare, come accaduto in un passato remoto, un prestatore internazionale di ultima istanza, ma ciò presupporrebbe l’esistenza di condizioni politiche che non sembrano all’orizzonte. Insistere sull’uscita subito e comunque, dunque, ha poco senso.
Oltre all’opzione atomica appena descritta, nel corso di questi anni se ne sono affacciate di più ragionevoli. Una è quella di uno “smantellamento controllato” dell’eurozona. Ma questa proposta si scontra con il fatto che smantellamento controllato vuol dire in sostanza evitare l’effetto contagio (o, per meglio dire, provarci) lasciando denominati in euro i debiti verso l’estero dei paesi periferici, che addirittura si andrebbero ad aggravare a seguito di una svalutazione. Lasciamo al lettore immaginare cosa accadrebbe ad una banca, un’impresa o uno Stato che si trovasse asset in lire, pesetas e dracme e liability in euro. Chiunque abbia sottoscritto i mutui in ECU negli anni ‘90 capisce bene ciò di cui parliamo.
Più sensate appaiono invece alcune proposte che non prevedono l’uscita o l’illusorio smantellamento controllato. Tra queste possiamo annoverare le varie ipotesi di “helicopter money”, compresa quella dei certificati di credito fiscale di cui si è parlato anche su Econopoly. E, tuttavia, queste proposte si scontrano con altri problemi. Nel caso dei CCF, ad esempio, la scontata opposizione dell’UE creerebbe un lungo periodo di incertezza che provocherebbe con tutta probabilità il crollo del loro valore. Ed anche se ciò non avvenisse, parliamo comunque dell’equivalente di obbligazioni garantite da un futuro e incerto introito fiscale. Nulla impedirà al pubblico di detenere i CCF finché dopo due anni, secondo la proposta, essi non potranno essere usati come bonus fiscali, l’unico momento insomma in cui il CCF varrà effettivamente quanto il suo valore facciale.
Qualcosa di più ci si potrebbe aspettare dalla vera “helicopter money”: la stampa di denaro da versare direttamente ai cittadini sui conti correnti. Ma anche qui: il governo italiano ha “regalato” 80 euro a molti lavoratori, con un impegno non piccolo in termini di finanza pubblica. I risultati non sono stati fin qui esaltanti. È stato “regalato” uno sconto alle imprese sulle assunzioni, e tuttavia anche i dati occupazionali sono modesti a fronte di una “spesa” considerevole. Insomma, la strategia di dare soldi in mano alla gente, quando la gente non vuole spendere ma risparmiare, si è rivelata largamente insufficiente.
Rimane quindi poco da fare se non affidarsi alla spesa pubblica vera e propria. Come? Noi pensiamo che possa avvenire su due canali: uno “federale” e uno “nazionale”, che possono avere dimensioni diverse a seconda dell’equilibrio politico che la negoziazione con l’UE determinerà. Il canale nazionale consiste nell’allargare le maglie della flessibilità e, se non ci si riesce, a mancare gli obiettivi di consolidamento fiscale, come del resto ha fatto la Spagna senza conseguenze. Ma essa non va usata, come ha fatto sinora il governo italiano, per ridurre il carico fiscale. Non perché sia sbagliato farlo in un paese ad alto carico fiscale come il nostro, ma perché l’esperienza è chiara nel dirci che non ha funzionato: né con gli 80 euro, né con l’IMU sulla prima casa (i prezzi delle case hanno continuato a scendere anche nel 2015) né con gli incentivi sul mercato del lavoro. Ogni spicciolo va invece speso direttamente dallo Stato in investimenti. In particolare ci si dovrebbe concentrare su quegli investimenti che possono costituire una strategia di sostituzione delle importazioni, cosicché si raggiungerebbero due obiettivi: la crescita e il miglioramento dei conti con l’estero senza essere costretti a comprimere la domanda interna attraverso politiche di consolidamento fiscale.
Il canale “federale”, invece, è materia più complessa. Come sosteniamo nel nostro libro, è oggi auspicabile una rinazionalizzazione delle politiche fiscali. E, tuttavia, ciò non esclude affatto una “unione degli investimenti”, da contrapporre al timore tedesco di trasformare l’eurozona in una transfer union. L’“unione degli investimenti” consiste nel prendere sul serio il piano Juncker, o meglio, rendere serio il piano Juncker. Essa è stata avanzata – ben prima che il presidente della Commissione varasse il suo piano – nell’ambito della cosiddetta Modest Proposal di Yanis Varoufakis, Stuart Holland e James K. Galbraith.
Qualsiasi giudizio abbia il lettore sull’ex ministro greco, lo sospenda e rimanga al merito. I tre economisti propongono che la Banca europea per gli investimenti emetta obbligazioni con le quali finanziare gli investimenti nei paesi più colpiti dalla crisi. Tali obbligazioni verrebbero acquistate anche dalla BCE, che così troverebbe un’ampia base per il suo quantitative easing, ma stavolta finanziando l’immissione certa di denaro nelle economie europee, piuttosto che affidarsi alla mediazione del settore finanziario impigliato nella trappola della liquidità. La differenza con il piano Juncker, che già prevede un piccolo intervento della BEI, è più sulle dimensioni (insignificanti in quel caso) che sugli aspetti tecnici.
Maggiore flessibilità di bilancio e “unione degli investimenti” – a nostro parere – dovrebbero essere il fulcro di una serrata negoziazione (leggasi: lotta politica) dell’Italia come capofila dei paesi periferici. Continuare ad ubbidire lamentandosi non potrà che perpetuare lo stato di stag-deflazione nel quale ci troviamo. Se l’euro resisterà a lungo con un paese come l’Italia impelagato in una mole così consistente di sofferenze bancarie, è tutto da vedere. Chi vuole salvare l’Europa deve cambiarla da cima a fondo e, perché no, anche disubbidirle.