di Thomas Fazi
Il fallimento delle politiche implementate in Europa dal 2010 in poi – un connubio di austerità fiscale, riforme strutturali (di impronta marcatamente neoliberista) e politiche monetarie espansive – è ormai sotto gli occhi di tutti. Oggi, a inizio 2016 – otto anni dopo lo scoppio della crisi finanziaria – il PIL reale dell’eurozona è ancora inferiore al picco pre-crisi (marzo 2008). Quello della Spagna è inferiore del 4,5 per cento. Quello del Portogallo del 6,5 per cento. Anche quei paesi che registrano tassi di crescita superiori alla media europea non se la cavano molto bene: il PIL reale della Germania, per esempio, è aumentato solo del 5,5 per cento rispetto al livello del 2008; quello della Francia del 2,7 per cento. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno registrato un incremento superiore al 10 per cento.
L’eurozona nel complesso registra un tasso di crescita annuale stagnante – inferiore al 2 per cento – dall’inizio del 2012; oggi si aggira intorno all’1,6 per cento. Nel 2017 è prevista una lievissima accelerazione. Nello stesso periodo (2012-16), molti paesi – tra cui la Grecia, l’Italia ed il Portogallo – hanno registrato tassi di crescita vicini o inferiori a zero. Le politiche “non convenzionali” della BCE – quantitative easing, tassi di interesse negativi, ecc. –, per motivi ampiamente trattati su queste pagine, non hanno favorito la ripresa, né lo faranno in futuro. A questo punto quindi possiamo dire che, almeno per quello che riguarda l’Europa, questa non è “la peggiore crisi dai tempi della Grande Depressione”; questa crisi è peggiore della Grande Depressione, se consideriamo che la maggior parte dei paesi occidentali, a 5-6 anni dalla crisi del ‘29, erano già tornato ai livelli di crescita pre-crisi.
I dati che riguardano la produzione industriale sono altrettanto avvilenti: -10 per cento rispetto ai livelli pre-crisi per l’area euro nel suo complesso. Molto peggio per i paesi della periferia. Gli investimenti fissi lordi continuano a viaggiare a livelli inferiori a quelli del 2007 in 21 dei 28 paesi dell’Unione europea. La Commissione europea parla della necessità di «uno stimolo coordinato agli investimenti» ma il cosiddetto “piano Juncker”, sbandierato due anni fa come il toccasana della crescita, continua a “stimolare” investimenti col contagocce (0,35 per cento del PIL dell’eurozona a inizio 2016, secondo uno studio dell’OCSE, che giudica il piano «deludente»), con un impatto su crescita/occupazione del tutto trascurabile.
Il tasso d’inflazione medio dell’eurozona, senza considerare gli enormi differenziali di inflazione tra paesi, è inferiore all’obiettivo dichiarato del 2 per cento dalla fine del 2012 e inferiore all’1,5 per cento – sotto il quale possiamo parlare de facto di deflazione – dall’inizio del 2013. In altre parole, da tre anni. Da febbraio, poi, è addirittura tornato in territorio negativo per la prima volta dal 2009. E questo a fronte di uno “stimolo monetario” da parte della BCE pari a più di 700 miliardi da marzo 2015 ad oggi: la dimostrazione più evidente del fatto che un contesto di stagnazione/recessione le politiche monetarie espansive non servono a nulla – e possono addirittura rivelarsi dannose – se non sono accompagnate da politiche fiscali altrettanto espansive – leggasi spesa in deficit – che immettano denaro direttamente nell’economia reale.
Diversi studi, perlopiù basati sui cosiddetti “moltiplicatori fiscali” (che studiano l’impatto delle misure di consolidamento fiscale sul PIL), hanno concluso che lo stato comatoso dell’economia europea – con tutte le ricadute sociali che questo comporta – è una conseguenza diretta delle politiche di austerità perseguite in questi anni. Un articolo pubblicato dal Centre for Economic Policy Research (CEPR) nel febbraio 2015, per esempio, stimava un effetto enorme sulle economie dell’eurozona: 7,7 per cento di PIL in meno tra il 2011 e il 2013 rispetto allo scenario di base. A fronte di tanta austerità, la riduzione del deficit pubblico rispetto allo scenario di base è stata risibile, pari allo 0,2 per cento del PIL dell’eurozona. Tanto dolore praticamente per nulla. Eppure, nonostante un lieve rilassamento della posizione di bilancio complessiva dell’eurozona, da restrittiva a neutrale – a cui però si accompagna una rinnovata enfasi sulla necessità di accelerare le riforme strutturali, che deprimono ulteriormente l’economia –, si continua a ostacolare l’unico strumento che (nel breve) potrebbe rimettere in moto l’economia: una reflazione coordinata per mezzo di un aumento del disavanzo pubblico dei singoli Stati europei.
Eppure le conseguenze di queste politiche sono note: un rapporto pubblicato nel 2014 dal Parlamento Europeo, insolitamente esplicito, accusava le politiche di austerità imposte dalla troika di aver provocato uno “tsunami sociale” nel continente. E da allora la situazione è nettamente peggiorata. Secondo gli ultimi dati Eurostat (gennaio 2016), il tasso di disoccupazione nell’eurozona e nell’Unione europea continua a viaggiare a livelli record: 10,5 per cento (17 milioni di persone) nell’eurozona e 9,1 per cento (22 milioni di persone) nell’Europa a 28. Se si escludono gli ultimi due anni, rispetto ai quali il tasso ha mostrato un lievissimo e lentissimo miglioramento, si tratta del dato più alto dai tempi della firma del Trattato di Maastricht, nel 1992. Ossia da più di vent’anni a questa parte. Parlare di media europea è fuorviante, però, poiché una delle caratteristiche della crisi in corso è proprio la sua natura profondamente asimmetrica, come abbiamo visto. Da un lato, infatti, abbiamo paesi come Spagna e Grecia che presentano un tasso di disoccupazione – rispettivamente del 21 e del 25 per cento – nettamente superiore alla media europea; dall’altro, invece, abbiamo paesi come la Germania che presentano un tasso di disoccupazione (4,5 per cento) ai minimi storici. Superiore rispetto alla media, seppure di poco, il dato dell’Italia: 11,3 per cento (3 milioni di persone), il tasso più alto da quarant’anni a questa parte (se si escludono gli ultimi anni).
Particolarmente drammatica – e ancor più asimmetrica – la situazione dell’occupazione giovanile: per quanto il tasso medio di disoccupazione giovanile dell’eurozona e dell’UE-28 sia già di per sé molto alto (22,5 e 20 per cento rispettivamente), in alcuni paesi si toccano punte che non si vedevano dai tempi della seconda guerra mondiale: 47,5 per cento in Spagna, 49,5 per cento in Grecia, 38 per cento in Italia (che però al Sud supera il 60 per cento, il tasso più alto d’Europa), a fronte di un risicato 7 per cento in Germania.
Per quanto riguarda l’Italia, il nostro paese è uscito da una recessione di sei anni solo nel 2015, e all’inizio del 2016 registrava ancora un tasso di crescita di poco superiore a zero. E gli effetti si vedono: produzione industriale al -25 per cento e PIL al -10 per cento rispetto ai livelli del 2008, tasso di accumulazione ai minimi storici, disoccupazione e debito pubblico a livelli record. Un’apocalisse economica e sociale – che si prefigura come la peggiore crisi dall’Unità d’Italia, ben peggiore di quella del ‘29 in termini macroeconomici –, da cui il nostro paese impiegherà decenni a riprendersi (e comunque solo a patto di un radicale cambio di rotta), soprattutto considerando i pesanti effetti strutturali che la crisi ha avuto sul tessuto produttivo italiano. L’esempio più evidente di ciò è l’incredibile numero di aziende che hanno chiuso per sempre dall’inizio della crisi: alla fine del 2013 erano più di un milione e 700.000 (un’azienda manifatturiera su cinque), di cui 111.000 solo nel 2013, secondo uno studio del Centro Studi CNA. Il 94 per cento di queste erano piccole e medie imprese.
Anche chi ha un lavoro, però, non se la passa molto bene: a causa della decisione dell’establishment europeo di perseguire anche nel settore privato la stessa politica di compressione dei salari già sperimentata nel settore pubblico (in particolar modo in quei paesi sottoposti a un programma di “aggiustamento strutturale” della troika) – secondo la logica della cosiddetta “svalutazione interna” –, tra il 2008 e oggi i salari reali sono diminuiti o sono rimasti stagnanti in tutti i paesi della periferia (con picchi del -20 per cento in Grecia). E questo a fronte di una caduta della quota salari sul PIL che, com’è noto, prosegue ininterrottamente da trent’anni.
Consequenziale in parte all’aumento della disoccupazione e alla stagnazione/diminuzione dei salari – nonché dei tagli alla spesa sociale e sanitaria – è l’increscioso aumento del tasso di povertà e/o di esclusione sociale nel continente: un dramma che secondo la Commissione europea riguarda ormai il 24 per cento della popolazione dell’Unione europea (tra cui il 27 per cento dei bambini e il 20,5 per cento degli over-65), pari a più di 120 milioni di persone. Nel 2008 erano “solo” 116 milioni. Quasi il 10 per cento degli europei oggi vive in condizione di grave deprivazione materiale.
L’austerità si rivela un fallimento anche in base ai suoi stessi (limitatissimi) parametri: il debito pubblico dell’area euro oggi si aggira intorno al 93 per cento – il dato più alto di sempre –, rispetto ad un livello pre-crisi del 79 per cento. E pensare che uno degli obiettivi dichiarati delle politiche di consolidamento fiscale è proprio la riduzione del debito pubblico. Parallelamente, continua a crescere inesorabilmente anche il debito privato, perlopiù a causa del fatto che le politiche di austerità hanno ostacolato il deleveraging del settore privato. Questo si riflette nella crescita vertiginosa delle sofferenze bancarie, ossia dei crediti bancari la cui riscossione non è certa. Secondo un recente studio pubblicato su VoxEU.org, le banche del continente avevano in pancia, a fine 2014, crediti di difficile riscossione (non-performing loans) pari all’incredibile somma di circa 1,2 trilioni di euro, pari al 9 per cento del PIL dell’UE e più del doppio del livello del 2009. I paesi maggiormente interessati dal fenomeno sono l’Italia, la Grecia, il Portogallo e Cipro.
Trattasi di un dato estremamente preoccupante sia per la stabilità finanziaria dell’Europa che per le prospettive di ripresa del continente poiché, come si legge nello studio, «un alto livello di crediti di difficile riscossione tende a… ridurre la crescita del PIL ed aumentare la disoccupazione». È evidente che anche questa è una conseguenza diretta delle misure di austerità perseguite negli ultimi anni, che non hanno fatto che acuire la recessione nei paesi della periferia, peggiorando i bilanci delle famiglie e delle imprese (che fanno sempre più fatica a ripagare i debiti contratti con le banche) e di conseguenza i bilanci delle banche stesse.
Infine, la strategia di riequilibrio asimmetrico dell’eurozona – per cui i paesi che registravano un deficit della bilancia commerciale sono stati costretti a ridurre i loro disavanzi (attraverso la svalutazione interna), mentre i paesi in surplus non hanno fatto nulla per ridurre i loro avanzi, che anzi sono addirittura aumentati – ha sì appianato gli squilibri della bilancia dei pagamenti intraeuropea, ma al costo di determinare uno squilibrio ancor più destabilizzante tra l’Europa e il resto del mondo. Col risultato che la bilancia commerciale dell’area euro, che nel 2007 era sostanzialmente in equilibrio, oggi registra un surplus senza precedenti, pari al 3,7 per cento del PIL. Ma è evidente che, così come la politica mercantilista tedesca non è sostenibile su scala europea, lo è ancor meno su scala globale, soprattutto se applicata all’eurozona nel suo complesso. Il motivo è semplice: il contesto dell’economia mondiale, caratterizzato da una stagnazione generalizzata di lungo periodo (ulteriormente aggravata dalla mortificazione della domanda europea causata dalle politiche di austerity), non è adatto a una crescita trainata dall’export.
Intanto il punto di non ritorno – oltre il quale evitare la deflagrazione dell’eurozona e con ogni probabilità della stessa Unione europea, con conseguenze economiche, sociali e politiche potenzialmente devastanti, diventerà praticamente impossibile – si avvicina sempre di più.