Boris Johnson, il sindaco conservatore di Londra, ha ragione, la trattativa tra il premier britannico David Cameron e l’Unione europea non ha dato a Londra quello che il premier aveva promesso. Il negoziato Brexit lo ha vinto la Commissione, abile “facilitatrice”, che i suoi uomini amano definirla in questo contesto, e lo hanno vinto i Paesi come la Germania , la Francia, il Belgio e l’Italia che più credono, anche se con coloriture a volte diverse, in una “Unione sempre più forte”.
Abbiamo letto e riletto l’accordo, abbiamo leggi giudizi di esperti di varie scuole, abbiamo parlato con tanti osservatori, ma nessuno ci ha convinto (tra coloro che ci credono) che Londra abbia ottenuto molto. Ha certamente ottenuto qualcosa in termini di immagine, ha mostrato la forza di imporre a tutti i partner una discussione sul suo status, ma alla fine, in termini di risultati concreti, ha ottenuto ben poco. Lo spirito e la sostanza dell’Unione sono salvi e lo dimostra anche il fatto che, a parte la questione dei benefici sociali ai cittadini Ue che si installano in Gran Bretagna, non sarà necessaria nessuna modifica legislativa dopo l’accordo e, soprattutto, perché i contenuti dell’accordo esplichino i loro effetti non è necessaria alcuna modifica dei Trattati, che sono le regole, e le ambizioni, su cui si fonda l’Unione.
E’ iniziata ora un campagna elettorale difficile, inedita, che riserverà molte sorprese dalla quale potranno nascere chissà quante contaminazioni. In Francia Marine Le Pen, leader dell’estrema destra, ha già messo nel suo programma elettorale un negoziato sullo status della Francia nell’Unione. In molti Paesi nasceranno movimenti che sosterranno le rinegoziazioni delle condizioni di adesione e la campagna per il “No” nel Regno Unito. Il dibattito, fuori dalla Gran Bretagna e fuori da Bruxelles sulla questione Brexit è stato fiacco, quasi inesistente. Tanto meno si è discusso delle possibili conseguenze.
L’Unione europea inizia ora la sua vera sfida. Ascoltare le richieste di un partner è giusto, chiarire le condizioni di adesione anche, perché questo è quel che si è fatto. Scappare sarebbe stata prova di debolezza. Ora però ci si confronterà con i cittadini. Il Regno Unito è sovente portato ad esempio della democrazia, di quella parlamentare almeno, e i cittadini britannici l’hanno praticata da secoli, non sono certamente impreparati a rispondere ad una domanda del genere, sul restare o meno tra i Ventotto. Però sarà la prima volta che un Paese dell’Unione voterà per dire “restiamo” o meno, dopo oltre quaranta anni di partecipazione. Sanno bene i britannici cosa vuol dire, anche se i populismi sono forti, i nazionalismi pure, nonché un certo, diffuso, sciovinismo.
Se diranno “Sì” sarà certamente una vittoria per Cameron e per l’Unione nel suo complesso. Qualcuno la vede anche come una cosa positiva perché si segnerà, finalmente, il confine tra questi due cerchi intersecati ma che non ruotano necessariamente sempre alla stessa velocità e nella stessa direzione. Si saprà chi sta da un parte (quella dell’integrazione) e chi dall’altra e si potrà procedere, affiancati ma non uniti, più velocemente verso i propri obiettivi.
Se diranno “No” per l’Unione sarà un fatto grave. Più di quanto si è concesso (pochissimo, quasi nulla) non lo si può concedere, pena decidere di smantellare tutto. Altri Paesi potrebbero seguire l’esempio di Londra, si potrebbe creare, come fu in passato, una sorta di Unione/non Unione parallela. Sarebbe però una grave sconfitta di un progetto che coinvolge tutti, non solo i britannici. Questa cosa ci riguarda tutti, non possiamo disinteressarcene.