di Luigi Pandolfi
Bizantinismo al posto del bipartitismo? Le ultime elezioni politiche in Spagna hanno aperto ad uno scenario per molti versi incerto. L’irruzione di Podemos e Ciudadanos nella scena politica, ha, infatti, modificato sensibilmente gli equilibri politici interni, con i popolari ed i socialisti che, per la prima volta dalla caduta del franchismo, si trovano a fare i conti con la propria insufficienza.
Per adesso, comunque, l’unica certezza è che Pedro Sanchez, leader del PSOE, si è detto indisponibile ad un nuovo governo guidato dal premier uscente Mariano Rajoy, nonostante la moral suasion tentata in questi giorni dal re Felipe VI e dalle principali cancellerie europee. Circostanza, questa, che ha spinto un alto dirigente del Partido Popular a dichiarare laconico: «Lo scenario più probabile in questo momento è che ci stiamo muovendo verso altre elezioni generali».
Sono in molti a pensare, nondimeno, che il riferimento ad elezioni anticipate sia usato, in queste ore, dai popolari solo come arma di ricatto nei confronti dei socialisti, che certo non avrebbero da guadagnare da un nuovo ricorso alle urne. È convinzione di Rajoy e del suo partito, in realtà, che le esigenze del paese impongano di «fare di necessità virtù», anche per «lanciare un messaggio di solidità ai mercati», dunque che i socialisti possano ritornare sui loro passi. Non solo. Dopo l’accordo raggiunto dalle forze indipendentiste in Catalogna per la formazione del governo della Comunità autonoma, sono in molti a sperare dalle parti del Partido Popular che tale evenienza possa costringere i socialisti a spendersi per un esecutivo di «unità nazionale». «Se siamo d’accordo sulle cose essenziali, cioè la difesa della sovranità nazionale, tutto il resto è negoziabile», è il messaggio rivolto a Sanchez ed al suo partito.
Invero, lo scorso 28 dicembre il Comitato federale del PSOE aveva approvato una risoluzione in cui era stata ribadita sia l’indisponibilità a formare un governo di larghe intese, sia la pregiudiziale, già espressa in campagna elettorale, nei confronti di Podemos. Nei rapporti con quest’ultimi, più che ragioni di natura ideologica, peserebbe proprio il diverso approccio al tema dell’unità del paese.
In particolare, i socialisti sarebbero fortemente contrariati dalla proposta del partito di Iglesias di affidare ad un referendum popolare la risoluzione della questione catalana e, più in generale, della futura forma di Stato. Ma sull’ipotesi di un’alleanza di governo con la sinistra radicale, non tutti la pensano allo stesso modo dentro il PSOE. A cominciare dallo stesso Sanchez, che, non per niente, ha incontrato nei giorni scorsi a Lisbona il premier lusitano Antonio Costa, il cui governo è sostenuto dai comunisti e dal Bloco De Esquerda. Una visita dall’alto valore simbolico, viste le similitudini tra l’attuale quadro politico spagnolo e quello venutosi a creare in Portogallo all’indomani delle elezioni dello scorso 4 ottobre.
Dunque, una soluzione “portoghese” per il nuovo governo di Madrid? La strada si presenta molto stretta, ma, almeno in teoria, non del tutto impraticabile. Dopo il faccia a faccia con il premier portoghese, infatti, il leader socialista è stato molto esplicito al riguardo: «Lo ripeto: dico no alla grande coalizione proposta dal Partido Popular. Se Mariano Rajoy non riuscirà a formare un governo, dirò sì ad una grande coalizione per un governo progressista in Spagna». Non a caso, con Costa, avrebbe parlato di “questioni programmatiche” e, in particolare, di come il governo portoghese si starebbe muovendo per rivalutare le pensioni, per aumentare il salario minimo, per riequilibrare la pressione fiscale a favore delle classi popolari, per dare più sostegno alle famiglie.
E Podemos? «Chi non capisce che siamo un paese di paesi non sarà in grado di costruire un progetto condiviso», ha dichiarato nei giorni scorsi Iñigo Errejon, numero due del partito, esortando i socialisti al dialogo per un governo di cambiamento. Pronto al dialogo anche Alberto Garzón, leader di Izquierda Unida, che ha fatto sapere di essere d’accordo a formare una maggioranza di governo con PSOE e Podemos, «incluso» Ciudadanos, se necessario.
Nel frattempo, comunque, Sanchez ha incassato il via libera della sua principale oppositrice dentro il partito, la presidente della Junta de Andalucía e segretaria generale del PSOE nella stessa Comunità autonoma, Susana Díaz. Con «un limite chiaro, però», ha tenuto a precisare la stessa, riferendosi alla questione dei rapporti tra Stato centrale e autonomie. Nell’ipotesi di un governo delle sinistre, sarebbe invece orientato all’astensione il movimento di Albert Rivera Ciudadanos, «anche se Podemos rinunciasse al referendum per la Catalogna».
La Catalogna, dunque. È da lì che passa il futuro prossimo del paese. Ne sono convinti sia a Madrid che a Barcellona. Intanto, Artur Mas, ex presidente della Generalitat de Catalunya e leader della Convergència Democràtica de Catalunya (CDC), che in parlamento dispone di 8 seggi, in queste ore ha lasciato intendere che potrebbe sostenere un governo a guida socialista, pur di sbarrare la strada ai popolari. Un “soccorso avvelenato” per Pedro Sanchez, stretto tra il desiderio di assecondare il vento di cambiamento che soffia sul paese e la necessità di rassicurare, dentro e fuori il partito, chi teme una balcanizzazione dello stesso.
Pubblicato su Linkiesta il 13 gennaio 2015.