di Guido Salerno Aletta
Ohibò! A leggere i dati della Banca d’Italia, le banche “minori” battono i primi cinque gruppi bancari, sia per le minori sofferenze in percentuale sugli impieghi, sia per il più contenuto tasso di copertura delle rettifiche.
Il Rapporto sulla stabilità finanziaria fornisce un quadro ben diverso da quello che ora va di moda, secondo cui ci sarebbero troppe “banche di paese”, troppe poltrone e soprattutto troppi vertici che, senza averne le capacità, si darebbero arie da gran banchieri. Prendiamo i dati delle sofferenze, in percentuale sugli impieghi: nelle banche minori sono del 9,5%, mentre nei primi cinque gruppi bancari arrivano al 10,8%. Vale anche per i crediti comunque deteriorati: nelle banche minori sono pari al 18,1%, mentre sono del 18,4% nelle prime cinque banche. Il tasso di copertura, poi, che consiste nel rapporto tra rettifiche ed ammontare lordo delle esposizioni deteriorate, è del 53,8% nelle banche minori e del 59,3% nelle prime cinque banche. Anche il tasso di copertura sui crediti deteriorati diversi dalle sofferenze è nettamente migliore: è del 20,9% nelle banche minori e del 27,6% nelle prime cinque banche. Infine, le rettifiche complessive, rapportate alle esposizioni complessive, sono state del 7,4% nelle banche minori, rispetto al 9% delle prime cinque banche. Un motivo di questa migliore performance delle banche minori in tema di rettifiche c’è, ed è la stessa Banca d’Italia a ricordarlo: è la maggior prudenza delle «banche di minore dimensione, in prevalenza di credito cooperativo, anche per effetto del peso più elevato delle garanzie sui prestiti (79,8 per cento a fronte di una media di sistema del 66,5)».
Insomma, non c’è un solo parametro in cui, per quanto concerne il rischio del credito, le banche minori non abbiano fatto meglio delle prime cinque banche nazionali. Lo storytelling di questi mesi sta invece cambiando le carte in tavola, sia per le banche popolari sia per le altre minori, tra cui spicca il credito cooperativo. Sarebbero inefficienti, e devono essere riformate. All’inizio della crisi americana si affermava, al contrario, che ogni sforzo doveva essere compiuto per evitare il ripetersi dell’azzardo morale che si annida nel gigantismo delle banche, quelle definite “too big to fail”. In Italia, invece, siamo arrivati al paradosso, per cui dovrebbero essere messe sul mercato le popolari, e soprattutto accorpate quelle piccole. Per le banche, non solo “piccolo non è bello”, ma questa miriade di istituti desta addirittura preoccupazione: sarebbero “too many to bail”: meglio impacchettarle. Ma per controllarle meglio, dall’alto.
Si sta ingenerando una convinzione contraria alla realtà dei fatti: non sono le prime cinque banche italiane, dobbiamo constatarlo, le migliori per rapporto tra crediti in bonis e totale degli affidamenti: raggiungono l’81,6% rispetto all’81,9% delle banche piccole e minori. Venendo alle cifre assolute, le banche minori hanno 17 miliardi di euro di sofferenze. Altrettante sofferenze, per 17 miliardi, sono di pertinenza delle banche piccole. Le grandi banche ne hanno in pancia per 39 miliardi, mentre le prime cinque banche arrivano da sole a 133 miliardi. Se ci dovessero essere problemi sistemici di stabilità finanziaria, non verrebbero certo né dalle banche piccole né da quelle minori, che comunque erogano rispettivamente 156 e 178 miliardi di crediti.
Questa considerazione vale naturalmente finché nessuno, magari malaccorto o peggio malevolo, non soffi sul fuoco: a quel punto, ogni favilla sarebbe buona. I dati contenuti nel Rapporto sulla stabilità finanziaria dimostrano che si sta montando un polverone mediatico contro le banche piccole e minori, popolari e cooperative. È un attacco politico, portato ai potentati locali che hanno resistito finora alla mercatizzazione del sistema. Sono centri di potere tradizionale, che hanno radici politiche, sociali ed amicali, che si vuole svellere ad ogni costo ed al più presto, cogliendo l’attimo: è rimasta finora una ragnatela impenetrabile che impedisce ai mercati ed agli operatori globali di farla da padroni.
D’altra parte, se è vero, come è vero, che le prime cinque banche italiane hanno un azionariato straniero sempre più consistente, è altrettanto evidente che a questa tendenza non ha corrisposto una migliore performance rispetto alle banche piccole ed a quelle minori. Neppure un azionariato forestiero, quindi, ha garantito una migliore valutazione del rischio di credito: influisce invece, eccome, sulla destinazione degli impieghi.
In Italia, le sofferenze bancarie sono concentrate in pochi settori ed in un numero relativamente piccolo di medi e grandi prenditori. A giugno scorso, escludendo le famiglie consumatrici, le sofferenze arrivavano a 157,6 miliardi di euro, di cui 20 miliardi nel settore immobiliare, 43,2 miliardi nelle costruzioni e 26,9 miliardi nel commercio e riparazioni di automobili, mentre nel settore manifatturiero erano di 37,4 miliardi. Nel complesso di un milione e 188 mila affidati in sofferenza, in 715 mila casi si trattava di somme inferiori ai 30 mila euro, per un totale di appena 5,8 miliardi di euro. All’opposto della classifica, appena 570 soggetti avevano ciascuno sofferenze superiori ai 25 milioni di euro, per un totale di 22,9 miliardi di euro. Nella classe tra i 5 ed i 25 milioni di euro, comparivano invece 5.264 soggetti con sofferenze complessive di 42,3 miliardi di euro.
Il problema delle sofferenze bancarie non si concentra nelle piccole banche, ma in pochi settori-chiave di attività economica colpiti dalla crisi, e nelle imprese piccole e medie. L’obiettivo di riorganizzare il mondo del credito persegue obiettivi non lontani dalla razzia, al momento senza successo. Per quanto riguarda la riforma delle popolari, chi pensava di maturare chissà quali plusvalenze con il superamento del voto capitario, si ritrova a dover mettere mano al portafoglio per partecipare alle ricapitalizzazioni. Intanto, per trasformarne gli statuti nella prospettiva di quotarle, si è perso un anno di tempo. Per riorganizzare le banche di credito cooperativo se ne perderà ancora chissà quanto. Il problema non è la forma, ma la sostanza: ci si balocca con l’architettura del potere, anziché fare banca. Mentre servono interventi di politica industriale, si fa perdere tempo prezioso a chi lavora con le aziende in difficoltà per risanarle e rimetterne i crediti in bonis.
Le banche più grandi si difendono meglio, sulla grande stampa. Di tutte le sistemazioni finanziarie che hanno effettuato a favore dei grandi gruppi, mai si spettegola: quelli sono affari, con tutte le carte sempre in regola. Per le banche piccole, invece, c’è sempre un retroscena da raccontare, un’amicizia di troppo che fa ombra. Troppo facile far volare gli stracci, dubitare e soprattutto far temere i risparmiatori della loro resilienza, mentre i dati ufficiali dimostrano esattamente il contrario.
Si vogliono mettere le mani sulle banche piccole e minori, per un tozzo di pane, ristrutturando il comparto, meglio se dopo aver spogliato gli azionisti attuali; sfruttando divisioni, campanilismi e fazioni; gettando discredito, parlando a vanvera di possibili crisi sistemiche e di necessari interventi da fuori, con la troika che incombe sempre minacciosa sul nostro destino.
Basta spargere un po’ di paura, ed il risparmio fuggirebbe all’estero verso ii soliti lidi sicuri, non solo quello delle banche piccole e minori, per alimentare ancora una volta altri circuiti finanziari e creditizi. È il risparmio italiano, questo sì, che fa davvero gola.
Pubblicato su formiche.net il 28 dicembre 2015.