di Ugo Marani
Nel tratteggiare i momenti di crisi del mercato finanziario britannico Bagehot nel 1873, scriveva:
A panic, in a word, is a species of neuralgia, and according to the rules of science you must not starve it. The holders of the cash reserve must be ready… to advance it most freely for the liabilities of others… In wild periods of alarm, one failure makes many, and the best way to prevent the derivative failures is to arrest the primary failure which causes them.
Il panico, detto in breve, è una sorta di nevralgia, e stando alle regole della scienza bisogna far sì che non esploda. I detentori di riserve liquide debbono essere pronti… ad anticiparne liberamente il più possibile per far fronte alle passività che sono in mano ad altri… In periodi di allarme rosso, da un fallimento ne scaturiscono molti altri e il miglior modo per prevenire i fallimenti derivati è quello di arrestare il fallimento primario che ne è all’origine.
E aggiungeva, descrivendo il lavoro di Jeremiah Harman, direttore della Bank of England durante il crollo del mercato azionario del 1825, a seguito degli investimenti speculativi in Sud America (tra cui quelli in titoli emessi dall’immaginario paese di Poyais ad opera dell’avventuriero Gregor):
We lent it on behalf of the Bank of England, by every possible means and in modes we had never adopted before; we took in stock on security, we purchased Exchequer bills, we made advances on Exchequer bills; we not only discounted outright, but we made advances on the deposit of bills of exchange to an immense amount, in short… we rendered every assistance in our power. After a day or two of this treatment, the entire panic subsided, and the “City” was quite calm. (Bagehot, 1873)
Da parte della Banca di Inghilterra è stato fornito supporto finanziario con ogni possibile mezzo e con modalità mai prima d’ora adottate, ci siamo messi sul mercato dei titoli, abbiamo acquistato titoli del Tesoro, abbiamo fatto anticipazioni sui titoli del Tesoro, abbiamo praticato non solo forti sconti, ma fatto anche anticipazioni su depositi di cambiali in misura elevatissima, in breve… abbiamo fornito ogni supporto in nostro potere. Dopo un giorno o due di questo genere di operazioni l’intero panico è venuto meno e la “City” si è calmata.
Episodi noti, che di sicuro saranno tornati alla mente delle autorità statunitensi e europee all’indomani del crollo di Lehman Brothers e della crisi dei mercati finanziari e bancari. Si trattava della coniugazione concreta del principio del “lender of last resort”, ovvero del ruolo del banchiere centrale quale prestatore di ultima istanza nelle situazioni di panico e di illiquidità. Un principio, quest’ultimo, ovviamente caro a chi enfatizza i vantaggi della discrezionalità dell’art of central banking a discapito degli automatismi di friedmaniana memoria. Giova, tuttavia, ricordare che tali si caratterizzavano per due modalità fondanti, la cui rilevanza rimane immutata a due secoli di distanza:
- la consapevole differenziazione tra istituzioni finanziarie illiquide e istituzioni insolventi;
- gli interventi di bailing-out basati sulla creazione di liquidità aggiuntiva.
Il punto 1 è di intuibile comprensione: gli interventi a favore di un’istituzione illiquida si caratterizzano per aiuti a operatori che soffrono di sfasamenti temporali tra entrate ed uscite, ma che, a differenza di quelle insolventi, possono godere di “collaterali” in grado di coprire il gap di liquidità o la cui economicità non è necessariamente compromessa.
Il punto 2 attiene invece alla natura dell’operatore che effettua il salvataggio: ove si tratti di una banca centrale esso avverrà con creazione aggiuntiva di base monetaria, a meno di interventi successivi di sterilizzazione su altri canali; se l’intervento, invece, sarà operato dallo Stato, esso, per la parte coperta da tassazione, determinerà una redistribuzione di ricchezza dai soggetti sottoposti a prelievo fiscale verso le istituzioni beneficiarie. Si tratta del fenomeno che, a seguito della crisi finanziaria attuale, sarà battezzato dai movimenti di contestazione degli interventi a favore delle banche come la redistribuzione “from Main Street to Wall Street”.
Ma torniamo ai giorni nostri. Nel 2008, a poco meno di due settimane dalla bancarotta di Lehman Brothers, l’Europa si trova a fronteggiare una crisi simile a quella statunitense, e pochi giorni prima che l’amministrazione Bush varasse, all’inizio di ottobre, i provvedimenti iniziali del Troubled Asset Relief Program (TARP), il programma che dette il via agli acquisti, da parte del governo americano, di quei titoli in possesso delle istituzioni finanziarie il cui valore era praticamente annullato dopo la crisi dei prestiti subprime.
Le decisioni da prendere allora erano di dimensioni inedite e di portata epocale: si trattava di decidere se e come intervenire a sostegno delle banche europee che subiscono le ripercussioni del crollo delle banche di investimento statunitensi. La letteratura sull’argomento è del tutto unanime nel ritenere che gli interventi che furono varati in Europa furono tempestivi come mai era successo prima e che si caratterizzarono per:
- la caratterizzazione nazionale degli interventi;
- l’origine statale degli aiuti;
- la prevalenza di ricapitalizzazioni prive di condizionamenti strutturali sulle istituzioni sulle quali veniva effettuato il “salvataggio”.
A iniziare le danze sono le banche anglosassoni. La Northern Rock, a fine 2008, beneficia di una linea di finanziamento e di garanzia di circa 27 miliardi di sterline concessa congiuntamente dalla Bank of England e dal Tesoro. La Royal Bank of Scotland, nel medesimo periodo, gode di due sottoscrizioni di capitale dal governo inglese: la prima di venti miliardi di sterline, con una partecipazione al capitale ordinario del 63%; la seconda di 13 miliardi. Dal bilancio del 2011 della banca si rileva che l’ammontare garantito dallo Stato è pari a 131,8 miliardi di sterline. Ancora in Gran Bretagna: il Lloyds Bank Group riceve dallo Stato una sottoscrizione di capitale pari a circa venti miliardi di sterline, pari al 44% delle azioni ordinarie della nuova banca rinveniente dalla fusione tra Lloyds e Halifax Bank of Scotland.
I governi di Germania e Spagna, successivamente, non sono da meno dei colleghi britannici: gli aumenti di capitale sottoscritti con fondi pubblici, solo a ricordarne taluni, riguardano il Banco Fin. De Ahorros (23 miliardi), la Commerzbank (18.2), la Bayerische Landesbank (10.5), la Landesbanken Baden-Wettenberg (5.0); e poi la Dexia in Belgio (10.5); l’ING Group (10.0) e la ABN AMRO Group (3.3) in Olanda; la BNP Paribas (7.6) e la Société Générale (3.4) in Francia.
Mai prima di allora l’Europa aveva riscontrato, come nel caso dei salvataggi bancari, una simile unità di intenti. I paesi europei, secondo stime recenti (R&S Mediobanca, 2015), stanziano un ammontare netto di interventi, sotto forma di (ri)capitalizzazione, di garanzie e di linee di credito e/o prestiti e al netto delle poste restituite o cui si era rinunciato, pari a oltre mille miliardi di euro. Di questi, oltre 253 erano stati destinati a banche spagnole, 156 a istituzioni britanniche, 110 a quelle irlandesi e oltre 80 a quelle tedesche e italiane. Un trasferimento finanziario che non ha riscontri con la storia del nostro continente: la Commissione europea (European Commission, 2015) stima che dall’inizio della crisi i paesi comunitari siano intervenuti a favore di 112 istituzioni bancarie nazionali.
Fin qui la cronaca sintetica delle modalità di intervento a favore delle istituzioni finanziarie e delle cifre degli aiuti di Stato. Tempestività e dimensione dei finanziamenti innescano una riflessione di carattere teorico, ovvero quanto la filosofia di simili bailout possa essere ricondotta ad una visione keynesiana, o comunque di derivazione non ortodossa, di politica economica, sia essa creditizia o di natura fiscale. L’interrogativo merita di essere brevemente esaminato sia per ciò che riguarda la natura degli interventi in sé sui mercati finanziari, sia per le sue eventuali cesure con un’intonazione di policy nei lustri precedenti alla crisi finanziaria che avevano innalzato mercato e deregolamentazione a principi ordinatori. La risposta, se non ci lascia deviare da elementi puramente fenomenici, è del tutto negativa.
In primo luogo gli interventi a sostegno delle crisi bancarie degli ultimi anni mai si sono caratterizzate per valutazioni selettive dell’operato delle singole istituzioni. Ma vi è di più: supervisori o regolatori europei, nazionali o sovranazionali che fossero, non hanno mai messo in discussione, nemmeno al momento del salvataggio o dell’aiuto, i meccanismi talora perversi che vigono sui mercati finanziari, la propensione a generare e accumulare rischio invece di minimizzarlo e la pratica di operare su asset, come i derivati, forieri di instabilità sistemica.
In secondo luogo risulta del tutto priva di fondamento l’idea che tali interventi siano avvenuti anche in virtù di un mutamento di clima intellettuale nelle policy: la gravità e gli effetti domino della crisi dei subprime avrebbero innescato una “Keynesian Resurgence” favorevole ad un diverso approccio, dopo una ventennale delega al liberismo sfrenato, alle politiche monetarie e fiscali. Se resurgence vi è stata essa è risultata breve, effimera e puntiforme; mai un ripensamento complessivo sui limiti della deregolamentazione; mai una serie riflessione sul mercato e sui suoi fallimenti. Qualche notazione critica o qualche dubbio, alla fine del decennio passato, si era sì manifestato. All’inizio del 2008 Dominique Strauss Kahn, allora direttore del Fondo monetario internazionale, aveva auspicato uno stimolo fiscale coordinato; a marzo Martin Wolf, sulle colonne del Financial Times, annunciava «the death of the dream of free-market capitalism» (‘la morte del sogno liberista’); Robert Shiller riprendeva a citare Keynes; Joseph Ackermann si esponeva affermando «I no longer believe in the market’s self-healing power» (‘Non credo più nella capacità del mercato di ripararsi da solo’) e Alan Blinder stimava 5-6 punti in più di disoccupazione negli Stati Uniti in assenza di politiche fiscali espansive.
Ma più che le esibizioni accademiche, i paesi del G20, nel 2008 e 2009, registravano una debole propensione a interventi espansivi. Ma politica economica e accademia erano ben più tetragoni. Nel 2009 più di trecento economisti della corporazione ufficiale statunitense, guidati dai premi Nobel Buchanan, Prescott e Smith, firmavano un manifesto contro i disavanzi fiscali a sostegno della domanda aggregate; Robert Barro, riprendendo pervicacemente gli assunti della teoria dell’equivalenza ricardiana, prediva moltiplicatori fiscali prossimi allo zero. La restaurazione liberista si compattava e, dunque, anche le seconde linee potevano riprendere, senza rischi di disallineamento, la critica al keynesismo: «Keynesianism is just a convenient ideology to hide corruption and political patronage» (‘Il keynesismo è solo una ideologia utile a mascherare la corruzione e la protezione politica’) scriveva con rinnovata sicumera Luigi Zingales.
L’ortodossia si era, dunque, appena incrinata, specie sul versante europeo. Mentre gli Stati Uniti, pur tra mille incertezze e scetticismo accademico, varavano, all’inizio del 2009, un pluriennale programma di incremento della spesa pubblica, l’American Recovery and Reinvestment Act (ARRA), in Europa il pallido interludio keynesiano volgeva al termine, dopo un breve benign neglect. A serrare le fila ci pensava la Banca centrale europea, che nel 2010 annunciava:
Following the substantial budgetary loosening, however, the fiscal exit from the crisis must be initiated… to be followed by ambitious multi-year fiscal consolidation. This is necessary to underpin the public’s trust in the sustainability of public finances. The Stability and Growth Pact constitutes the mechanism to coordinate fiscal policies in Europe … Sound and sustainable public finances are a prerequisite for sustainable economic growth and a smooth functioning of Economic and Monetary Union”. (ECB, 2010, p. 7)
Dopo il sostanziale allentamento di bilancio [pubblico], tuttavia, deve iniziare l’uscita fiscale dalla crisi… a cui deve seguire un ambizioso consolidamento fiscale pluriennale. Ciò è necessario per sostenere la fiducia del pubblico nella sostenibilità delle finanze pubbliche. Il patto di stabilità e crescita costituisce il meccanismo per coordinare le politiche fiscali in Europa… Finanze pubbliche sane e sostenibili rappresentano il presupposto per una crescita economica sostenibile e un buon funzionamento dell’Unione economica e monetaria.
Da allora nasce una schizofrenia nella politica economica europea che, a cinque anni di distanza, ereditiamo nella sua interezza: politiche fiscali rigorosamente tese al pareggio di bilancio in nome del salvifico principio di austerità, politica monetaria espansiva e linee di soccorso, aiuti e bailout, al sistema bancario, infinitamente elastici. Un mix di politica economica non nuovo nella storia delle economie occidentali nelle interazione tra politica monetaria e politica fiscale. Mervyn King, già governatore della Bank of England, confessava qualche anno addietro che il maggiore timore di un banchiere centrale è costituito non tanto dall’inflazione, quanto dall’andamento del disavanzo pubblico. La novità, in Europa ma non solo, risiede nell’orientamento incondizionato a intervenire, quali che siano gli effetti in termini finanziari sul contribuente, a favore del sistema bancario. Sia degli stati nazionali sia della Banca centrale europea.
Una simile incondizionato sostegno al sistema finanziario merita, dunque, una particolare attenzione nella ricostruzione delle vicende della policy europea all’indomani della crisi internazionale. E il ricercatore che tentasse di ricostruire la ratio di tale fenomeno probabilmente si troverebbe di fronte molteplici cause, talune probabilmente fondate, altre determinate da ipotesi interpretative discutibili, altre, infine, di assai meno nobili intenti.
Partiamo dalle motivazioni “ragionevoli”. Al momento in cui la crisi finanziaria si è innescata, le principali SIFI, le Systemically Important Financial Institutions, ovvero le istituzioni che, sul mercato finanziario operano cross-border con infinite sussidiarie in molti paesi, con un portafoglio di attività il cui ammontare supera spesso il PIL di taluni Stati. Per le SIFI il principio del too big to fail (troppo grandi per fallire) andrebbe integrato con too linked to fail (troppo collegate per fallire). Le banche europee SIFI sono state tutte oggetto di intervento e di aiuto dopo la crisi. Dunque la paura dell’effetto domino tramite le istituzioni finanziarie a rischio sistemico è alla base dei bailout dal 2008. Sarebbe tuttavia da spiegare come una simile “corretta” giustificazione all’intervento non sia stata accompagnata da un ripensamento della governance su tali istituzioni e da più efficaci normative sulle modalità del loro comportamento sui mercati finanziari.
Non meno rilevanti, a proposito del sostegno non condizionato al sistema bancario, appaiono, nel periodo che segue la crisi di illiquidità e di insolvenza iniziale, considerazioni riguardanti sia gli effetti negativi e perversi che le banche, specie quelle del medesimo paese, avrebbero sofferto dalla crisi del debito sovrano dei paesi aderenti all’area dell’euro sia la convinzione che la solidità patrimoniale dei grossi istituti di credito costituisca una precondizione per una perdurante unione monetaria. Valutazioni legittime ma discutibili se si pensa che la fragilità bancaria non è stato solo effetto ma anche causa della fragilità del debito sovrano laddove l’uso spregiudicato e la speculazione sui credit default swaps sovrani ha avuto, essa stessa, conseguenze negative sulle credibilità dei governi nazionali oggetto di attacco speculativo. E ancora: reputare, come nel caso del presidente della Banca centrale europea in occasione delle sue dispute ricorrenti con il cancelliere tedesco e con il governatore della Bundesbank Jens Weidmann, che la robustezza patrimoniale delle banche assicuri condizioni di successo nel medio-lungo periodo all’Unione europea, non implica, di per sé, una accondiscendenza sistematica alle “necessità” del mondo bancario.
Dunque l’interrogativo perdura e le motivazioni analitiche devono essere ponderate con elementi che l’economia cattura con storica difficoltà. In una ricerca pubblicata di recente dal Corporate Europe Observatory si formula l’ipotesi che la mancata riforma della governance sul mercato finanziario europeo dal 2008 sia stata causata dalle
… successful campaigns waged by the financial lobby in the European Union: its fire power in resisting reforms it dislikes has been all too evident with issues such as banking regulation, derivatives, credit rating agencies, accounting rules, and many more.” (Haar e Hoederman, 2014).
… campagne di successo condotte dalla lobby finanziaria nell’Unione europea: la sua potenza di fuoco nel resistere alle riforme che non le piacciono è stata fin troppo evidente in questioni come la regolamentazione bancaria, i derivati, le agenzie di rating del credito, le norme contabili, e molte altre.
La convinzione che il mondo degli affari eserciti pressioni, debite e indebite, sul potere legislativo ed esecutivo costituisce un leitmotiv ricorrente delle ricostruzioni, talora dietrologiche, delle relazioni tra politica finanza. Quel che oggi pare inedito è l’omologazione di queste relazioni in Europa al ben collaudato sistema americano. Oltre Atlantico sono stati ampiamente documentate le attività del Financial Services Roundtable, che rappresenta le 100 più grosse compagnie di servizi finanziari, e la International Swaps and Derivatives Association. Entrambe sono risultate cruciali nel minimizzare le ripercussioni sul mondo finanziario della crisi successiva a Lehman Brothers e della normativa che ne è succeduta.
Quel che è nuovo per lo studioso europeo è appurare è che presso gli organi comunitari di Bruxelles operano 1.700 lobbisti e più di 700 organizzazioni espressione del mondo bancario e finanziario, con la British Bankers Association e la German Banking Industry Committee che svolgono il ruolo di battistrada nel Parlamento e nella Commissione Europea. Il grafico che segue rappresenta la struttura della rete delle relazioni delle principali società di lobbying e le cifre indicano le spese sostenute per i propri clienti finanziari nell’attività di lobbying.
Fonte: Haar e Hoederman, 2014
Quale che sia il ruolo delle lobby, di certo centralità e sostegno del sistema bancario costituiscono uno dei poli del mix di policy dell’Unione monetaria europea al cui polo opposto rinveniamo i principi di austerità reale. Entrambi i versanti pervicacemente incoerenti nella loro interezza, analiticamente infondati e socialmente contraddittori, tanto da presumerne una non remota, inevitabile implosione.
Pubblicato su Keynes blog il 2 gennaio 2016.
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Bibliografia
W. Bagehot, Lombard Street: A Description of the Money Market, London, H.S. King & Co., 1873
European Central Bank, Euro Area Fiscal Policy and the Crisis, ECB Occasional Paper Series no. 109, 2010
European Commission, State Aid to European Banks: Returning to Viability, 2015
International Center for Monetary and Banking Studies (ICMB), A Safer World Financial System: Improving the Resolution of Systemic Institutions, 2010
M. W. K. Haar e O. Hoederman, The Fire Power of the Financial Lobby. A Survey of the Size of Financial Lobby at the EU Level, Corporate Europe Observatory, 2014
R&S Mediobanca, Major International Banks: Financial Aggregates and Financial Stabilization Plan. Annual statistical survey of major banks located in Europe, Japan, United States and China, 2015